E’ tutto cielo

 

È tutto cielo

 

Per il mio ventesimo compleanno e quando mancavano meno di trenta giorni all’esame che mi avrebbe coronata Chef, mia madre mi regalò una colazione in un ristorante stellato che aveva aperto da poco vicino casa. 

Mi accompagnarono ad un tavolo un po’ in disparte, quei posti segreti dove nessuno ti vede ma da dove puoi osservare ogni scena intorno. Arrivò lui e mi porse un piatto, perfetto, sembrava un’opera di Mirò. 

Lui sembrava persino bello nella sua divisa di un bianco che sa di pulito. Con il toque impeccabile, aveva un portamento regale. Mi disse di osservare, poi chiudere gli occhi e abbandonarmi ai sensi. Poi mi porse un foglio e mi chiese di annotare gli ingredienti, soprattutto le spezie. I miei occhi erano già in estasi davanti a quel quadro, mi abbandonai e seguii le istruzioni senza battere ciglio. I trancini di salmone selvatico facevano capolino tra profumi inebrianti….curcuma, cumino, coriandolo….e qualcosa di misterioso. Le papille sorrisero. Porsi il foglio e mi disse: “Brava, manca solo il segreto dello Chef.” Domani puoi tornare, se vuoi. 

Era diventato il mio appuntamento giornaliero. Aspettavo con ansia quell’ora, mi preparavo come fosse un giorno di festa, provavo vestiti nell’armadio finché non trovavo la combinazione perfetta. E facevo il trucco all’ultimo momento affinché fosse intatto. Lui mi aspettava sorridente: il mio piatto era pronto. Chiudevo gli occhi e lasciavo che i 5 sensi rispondessero in una marcia trionfale. Cavatelli con ricciola, risottino con pere, Finocchi bardati Pancetta, Spigola fumè con pesto di Rucola e Chicca di Pollo. Annotavo e davo il foglio. Mancava sempre un qualcosa, non trovavo quel piccolo non so che, che rendeva tutto così diverso, così straordinariamente unico e ti faceva capire che era stato cucinato da Quel Cuoco e nessun altro. 

Un giorno era più smorto del solito, il viso tirato sotto un dolce sorriso. Mi porse un dolce, anzi due: delle chioccioline fatte a mano ma perfette come madre natura e delle praline al cocco, con il sapore dell’Africa che si fondeva con il croccante del guscio che profumava di…..eccolo, il segreto dello Chef…. tutte le pietanze erano arricchite dalla liquirizia, una minuscola punta di liquirizia. Presi il foglio e scrissi solo quella frase: “lo Chef della liquirizia “. Mi guardò con immenso orgoglio e disse: “Sei davvero diventata brava”. 

Il giorno seguente avevo l’esame e non mi fu possibile andare al ristorante ma ero così contenta di aver passato tutte le prove  e soprattutto del mio risultato del “prepara un piatto con un tuo segreto” che non ebbi il tempo di pensare all’appuntamento. Tornai a casa felice per dare la buona notizia e quasi non mi accorsi che mia madre era in un angolo, silente. Mi guardò e disse: “Se n’è andato, un male incurabile l’ha portato via stamattina “. Non versai lacrime, un forte nodo alla gola mi bloccò e mi ritrovai a pensare che quello che avevo ricevuto in così poco tempo aveva un valore infinito. Pensai solo che non era giusto, mio padre era arrivato troppo tardi e se n’era andato troppo presto. Il rancore, la rabbia erano solo per quel fottuto male che se l’era portato via. 

Mi consegnarono due enormi valigie ed una grande busta gialla con scritto “aprire per prima” . Aspettai la sera, mi chiusi in camera e tolsi la ceralacca. Un toque nuovo meraviglioso da grande chef con all’interno una dedica: “avrai il tuo segreto, ne sono certo”.  Sorrisi e mi sentii grande. La lettera era di poche righe, scritte a mano con una calligrafia un po’ infantile. 

“Cara Sara, qui c’è un biglietto aereo per un posto meraviglioso. Porta con te le due valigie e fanne buon uso”.

Il volo fu lungo, non avevo mai viaggiato oltre Europa e mi trovai a guardare incuriosita dal finestrino dell’aereo le distese immani di foreste e poi deserti e savana. Atterrata a Lilongwe, all’uscita un cartello : “Welcome Sara.”

Nelson, minuto con occhi neri neri e lo sguardo dolce, età indecifrabile, poteva avere gli anni di mio padre o molti di più. Prese le due grandi valigie, mi fece salire su una jeep e partimmo, tra il caldo appiccicoso e la polvere delle strade sterrate. La città caotica anche di primo mattino con gente ovunque carica di tutto o di niente che va chissà dove. Profumo acre, di sole, di caldo, di sudore, di terra. I villaggi sembrano formiche, le donne camminano lungo gli argini avvolte nei loro vestiti colorati, e non si spostano neanche  all’alzarsi della polvere al nostro passaggio. 

Finalmente arriviamo in un villaggio, Nelson parcheggia la jeep davanti ad una casetta, semplice, senza fronzoli , ma dignitosa. I bambini giocano, le donne fanno lavori vari, gli uomini quasi assenti. Benvenuta Signorina Sara, figlia di Tom. 

Decido di mettermi subito al lavoro, apro le valigie e mi ritrovo circondata da cento occhi neri, neri e lucidi, che brillano come le stelle nella notte di San Lorenzo. E tutti gli sguardi sorridono e parte un battito di mani . Tirai fuori farina, lieviti, odori , e semi…. sembrava la moltiplicazione dei pani e dei pesci. E mazzi di fiori bianchi, lilla e rosa….la liquirizia in fioritura con tutto il suo splendore. 

« Il signor Tom ci ha insegnato come fare la pasta con solo acqua e farina, le polpette di pane ed erbette, il dolce di uova..e come coltivare le poche verdure che possono crescere in questo ambiente così ostile. Tutto quello che sappiamo fare ce l ‘ha insegnato lui, il nostro grande amico mzungu  (uomo bianco) ».

Furono i 6 mesi più belli della mia vita. Le giornate scorrevano lente. I sorrisi delle donne e dei bambini con le mani in pasta, e la polvere della farina che riempiva la stanza gioiosa. Gli sguardi attenti, quando spargevo i semi tra zolle aride, dopo aver smosso la terra per giorni implorandola di aiutarmi ad aiutare. E, verso sera, un meritato momento di riposo tra i tramonti infuocati. E nell’aria della savana, di notte, guardando il cielo che odorava di liquirizia. 

Il mio visto stava per scadere quando Akia, la mamy, regina della casa per motivi di anzianità, mi venne incontro una mattina di fine estate e con gli occhi lucidi mi porse una busta. L’aprii davanti a lei e trovai un biglietto Lilongwe – Bangkok. Passai la notte insonne: volevo godermi ogni istante di quel luogo magico. E portare con me i profumi, i colori, i sapori, gli odori dell’ Africa. 

L’Oriente mi ha sempre incuriosita perché profuma di spezie. Da Bangkok un volo interno mi porta sull’isola di Koh Samui. Il mare color smeraldo e le palme che s’inchinano sull’oceano mi accolgono in una normale giornata di sole. 

Kanya mi accompagna nel mio bungalow, in mezzo ad un giardino tropicale dai colori dell’arcobaleno. Mi dice che Roberto mi aspetta, dopo la doccia ed un veloce riposo. 

Roberto mi abbraccia come se fossimo parenti ritrovati. Mi dice che deve tutto a mio padre. “Quando sono venuto su quest’isola mi sono innamorato del posto, del mare, dei profumi, della gente e di lei…Sole: la chiamai io così, perché il suo nome thai è impronunciabile. la sua dolcezza, la sua delicatezza, i suoi modi gentili e affettuosi non avevano eguali. Ci sposammo nella hall dell’albergo che sapeva di vernice fresca. Arrivarono  i miei genitori orgogliosi di vedere come avessi investito i loro soldi. Fu un matrimonio da favola, lei splendida nel suo vestito azzurro cielo, mia madre e le sue lacrime, mio padre che guardava più l’arredo dell’hotel , contestando lavori un po’ troppo imperfetti per lui che, con quarant’anni da muratore, di costruzioni ne aveva viste. Sole era veramente il mio sole, mai una parola fuori posto, grandi sorrisi, affettuosa, dolce, sempre presente, sempre attenta ai clienti, soprattutto esigenti clienti stranieri, che cominciarono ad amare quel piccolo angolo di paradiso. Per questo non capii quando un giorno mi arrivo’ una lettera dall’avvocato: dovevo immediatamente lasciare l’hotel di Sole. Certo, come da legge thailandese, avevo intestato tutto a mia moglie. Non avevo assolutamente pensato di proteggere in qualche modo il capitale totalmente mio. Quando chiesi spiegazioni lei mi rispose semplicemente: “ti conviene partire, se non vuoi che chiami la polizia”. E conoscendo un po’ le leggi del paese di sicuro non avrei voluto trascorrere il resto della mia vita in una prigione locale. Ero rimasto senza nulla, due paia di pantaloni , un passaporto ed un telefono. Passai giorni a girovagare con la testa assente: non sapevo cosa fare e soprattutto non potevo dire a mio padre che avevo perso tutti i sacrifici della sua vita. Fu allora che sentii la necessità di chiamare il mio amico d’infanzia, l’unico con cui avevo ancora contatti e che si trovava in Africa, in una missione di ricerca della sua felicità. 

Tommaso fu felice di sentirmi. Aveva ritrovato la voglia di vivere in Africa, dopo la grande delusione d’amore…. incredibilmente due amici d’infanzia si risentono in due posti del mondo ed entrambi hanno alle spalle una forte pena d’amore. Non faccio in tempo a spiegare quanto mi era successo che lui mi interrompe. “Arrivo, il tempo di congedarmi da chi mi ha ridato la voglia di vivere e sono da te”. 

Era diventato un uomo, l’Africa gli aveva offerto la corazza che lo proteggeva dai pericoli esterni ed interni, calmo, di quella pacatezza che tutti sognano di avere. Si guardò intorno, poi mi chiese: “ma davvero ti piace questo posto? Mi sembra asettico, una bella donna senz’anima”. Lo conoscevo, in fondo, dietro quella corazza era sempre lui. Gli chiesi di seguirmi e ci incamminammo verso il mercato. Man mano che ci avvicinavamo lo vidi chiudere gli occhi e lasciarsi guidare dai sensi: Zenzero, cannella , peperoncino, coriandolo, curcuma, curry, ginger fresco, basilico, salsa di ostriche , lemongrass, pepe nero, chiodi di garofano, semi di finocchio, semi di cumino e senape…..benvenuto nel mondo dei balocchi. Per un attimo tornai all’infanzia, ai nostri giochi, ai nostri luoghi. Lui cominciò a guardare i colori delle spezie, alcuni nuovi per lui ma che già stavano entrando dentro di lui. Passammo la mattinata lì ad annusare e guardare e toccare e assaggiare e sentire….già perché una spezia è viva, si muove…..mi sembrava uno sciamano nel suo regno. Fu facile per lui, uomo dalle mani d’oro, trovare un piccolo locale ed in men che non si dica da “Tom and Rob, the 2 italian friends” divenne il ritrovo di chi cercava il connubio perfetto tra oriente ed occidente. Era un locale semplice, grezzo, senza pretese, ma le materie prime erano eccelse, tanto che anche i pescatori ormai amici, al mattino portavano le prede più pregiate appena pescate, in cambio di un po’ di quello strano ragù con un’ingrediente segreto che le loro mogli avrebbero voluto conoscere. Ci divertivamo, nei mesi di turismo sfrenato i giorni erano senza sosta, ci si levava all’alba e si finiva dopo la mezzanotte. I turisti amavano questa cucina profumata ma naturale, odorosa ma semplice, ricercata nella sua normalità. E nella bassa stagione ciondolavamo ore e ore sull’amaca, sorseggiando una birra o un semplice the alla liquirizia. Un giorno di bassa stagione un Signore vestito fuori luogo, con un completo da uomo d’affari ed una cravatta leggermente slacciata sotto un cielo troppo afoso, gli chiese di dove fosse e poi rispose: “Ho bisogno di un uomo con la creatività italiana, che sappia amoreggiare con le spezie con così grande maestria, lo vorrei per il mio ristorante di New York”. Tommaso mi guardò e capii che lui aveva voglia di una nuova sfida. Ci abbracciammo e quando parti’ era un pezzo di me che si muoveva verso un nuovo mondo”. 

Ma che uomo era mio padre? Mi sentii orgogliosa, felice di sentirlo li, vicino a me, nei racconti dell’amico Roberto c’erano tutti i sentimenti più dolci e veri. 

Trascorsi un po’ di tempo in Thailandia, studiando le spezie e le strane verdure e i frutti dalle mille fogge: passavo giornate ad annusare e mischiare i mille sapori. Mi sembrava di giocare al piccolo chimico. Ogni fiore, filo d’erba, bulbo, alga, polvere aveva immani sfumature di colori, di sapori, di consistenza, di odori. E mischiandoli prendevano forme, aspetti, profumi diversi. Era un gioco senza fine. Annotavo gli esperimenti e mi ritrovai con due grandi quaderni di appunti. Salse per uova, pesce, pollo, carne, pasta, dolci.

Quando seppi che era ora di partire per New York andai al mercato, comprai dei  fiori bianchi, lilla e rosa: la liquirizia . Creai dei piccoli bouquet, e li lasciai sulle tavole dei clienti come decorazioni. 

New York è il viaggio che ogni ragazza sogna, perché rappresenta la modernità. Tutto quello che succede a New York arriverà da noi tra tre, quattro, cinque anni. Ero contenta di vivere un’anteprima. Passai davanti al ristorante ed un uomo in livrea che apriva la porta mi scrutò. Feci finta di nulla e continuai la mia strada. Il voiturier stava aprendo la porta della limousine ad una coppia di anziani in tenuta da teatro, lei indossava dei guantini in macrame’ che ricordavano tempi lontani, ma la collana di  Van Cleef & Arpels l’avevo vista sull’ultimo numero di Vogue che una signora aveva lasciato nella sala d’attesa dell’aereo. Uno splendido abito rosso corallo in una vetrina mi chiamò, entrai sotto l’occhio vigile di una commessa filiforme dall’impeccabile divisa e taglio coordinato, e rossetto perfetto, e unghie immacolate e tacchi vertiginosi. Elargendo grassi sorrisi mi accompagnò in camerino. Quando uscìi lo specchio proietto’ l’immagine di una diva. La commessa scrisse su un foglio una marca ed un codice e mi disse: da Macy’s hanno un rossetto dello stesso colore, sarà divina! 

Ero pronta, dopo una doccia e aver raccolto i miei lunghi capelli in uno chignon, mi sentivo pronta a scoprire un altro tassello di una vita che oramai mi apparteneva. L’uomo in livrea mi accolse con un “benvenuta da the Chef’s secret, Signorina”. Il tavolo era tondo, con tovaglie pesanti di damaschi e velluti preziosi, sopra sete indiane che toccavano terra, ma le pareti erano moderne, con luci di design che creavano contrasti di colore. Ed ai muri quadri veri di autori moderni. Splendidi bicchieri pesanti, dipinti a mano, arrivati direttamente da Praga, di cristallo, come diamanti puri. 

“Se le fa piacere , Signorina, questa sera abbiamo un asado argentino, con una salsa chimichurri al segreto dello Chef: prezzemolo, aglio, origano, pimento, olio e sale in un trionfo di sapori dato naturalmente dal segreto dello Chef”

“Liquirizia?”…. chiesi d’istinto. Il cameriere divenne pallido, si guardò intorno, nella speranza che i vicini non avessero colto la parola magica, poi mi guardò e silenziosamente annuii con il capo. 

La sala era piena di gente elegante, ai tavoli rotondi erano sedute grandi fortune, le mani di ogni  signora sfoggiavano diamanti del valore dell’appartamento che mia madre aveva comprato con le sue fatiche aggiunte all’eredità dei nonni. L’ultima collezione di borse Hermes era lì, appoggiata sui seggiolini di pelle ricamati di fili d’oro, accanto alle grandi sedie damascate dove sedevano le fortunate. Shatush colorati coprivano le spalle di alcune donne per difendersi dall’aria condizionata. I camerieri in divisa sembravano dei pinguini, uno accanto all’altro, addestrati a sollevare davanti ai clienti , nello stesso millesimo di secondo,  pesanti coperchi d’argento contenente la perla del giorno. La Società che conta nella Grande Mela era lì in attesa di vivere un momento di estasi davanti ad un piatto che aveva creato lui. Per la prima volta mi scesero delle lacrime, forse di gioia. 

Percorsi la quinta strada velocemente, andai a Times Square perché volevo vivere un attimo i tanti film ivi ambientati, ma l’orda di turisti in pantaloncini e canottiere sudate con sopra grandi medaglioni placcati oro, e orecchini cinesi e matriosche tatuate su braccia gonfie da troppi ormoni, mi fece tornare indietro, ed allungai il passo per cercare un po’ di vera pace a Central Park. Un’oasi, un miracolo della natura: nella sera ormai avanzata lo skyline di New York si stava addobbando, le luci iniziavano a prendere la loro forma ed il miracolo del sogno si stava realizzando. 

Avevo ancora una busta da aprire. Avevo vissuto con mio padre gli ultimi 10 anni della sua vita, li sentivo miei, era come se fossi stata il suo angelo custode. 

L’ultima busta conteneva un biglietto per Buenos Aires e istruzioni ben precise. “Questo è l’indirizzo dell’Hotel, camera 113. C’è un elenco telefonico con un segnalibro. Aprilo. “. 

La vista della Statua della Libertà dall’aereo fa pensare ai migranti arrivati in quella terra sconosciuta e ad un futuro incerto. Quanto coraggio! Non so perché ma ora ho bisogno di coraggio. Percorrere la vita a ritroso mi mette paura. Per la prima volta ho paura di sapere la verità. Non ho mai chiesto a mia mamma chi fosse mio padre e lei non me ne ha mai parlato. Non ne ho mai sentito la necessità: avevo tutto l’amore che si può avere, o forse avevo paura che una domanda impertinente potesse distruggere quella serenità che anche lei si era conquistata. Ma ora era diverso. Avevo conosciuto un uomo straordinario che aveva vissuto la vita nella sua pienezza  facendo gioire tutti quelli che erano intorno a lui. Ma perché io non avevo fatto parte della sua vita dall’inizio? 

Decisi di abbandonare i pensieri che mi tormentavano e cominciai a leggere qualcosa su Buenos Aires e sul quartiere del mio Hotel : San Telmo.

San Telmo è anche celebre per le sue vicende storiche; fu il primo quartiere sede di feroci scontri e sanguinose battaglie contro gli Inglesi all’inizio del 1800 quando vi era la disputa per il predominio della città fra Inglesi e Spagnoli, ma gli abitanti di San Telmo (i Portenos) prima sconfissero i sudditi della regina, poi da tale episodio acquistarono la consapevolezza che anche l’emancipazione dalla Spagna fosse possibile. In tre anni infatti riuscirono a liberare la città ed a trasformare il quartiere in un elegante sede dell’alta moda. La successiva febbre gialla, che colpì Buenos Aires alla fine del XIX secolo cambio’ lo scenario. I membri più abbienti della società si trasferirono nel vicino quartiere della Recoleta (ancora oggi importante quartiere residenziale), e San Telmo rimase una zona dove le antiche ville (conventillios) furono trasformate in abitazioni popolari per i più disagiati.

Da qualche anno la situazione è nuovamente cambiata, ed i Conventillos attirano sempre più artisti, girovaghi, boehemien, giovani studenti e ricchi residenti stranieri. Un quartiere florido di cambiamenti, che ha probabilmente trovato la sua definitiva dimensione. 

Arrivai nel tardo pomeriggio, non avevo dormito tra mille pensieri ed il fuso orario mi aveva ingannata. Il piccolo Hotel era strano, sembrava di entrare in un’abitazione privata, una scala stretta portava al primo piano dove una piccola reception accoglieva un paio di persone e non più di due valigie. La camera era angusta ma l’arredamento era accogliente  e nel bagno una splendida vasca  in ghisa mi rimise in sesto. 

Mi buttai sul letto e solo allora mi ricordai dell’elenco telefonico. Lo apri alla pagina del segnalibro: c’era un numero . “Ben arrivata, manda un sms al numero con scritto “liquirizia”. Hai un tavolino prenotato domani alle 18:00 al Bar Milonga Mi Amor”. 

Seguii le istruzioni, chiusi il telefono e mi addormentai come un bebè. Passai la mattinata a prepararmi, era come se andassi al primo appuntamento. Chiesi un ferro da stiro in uno spagnolo improbabile e la ragazza capi’ solo quando mimai il gesto. La camicia aveva lottato ore e ore con una valigia troppo stretta e la gonna aveva preso una brutta piega. 

Troppi pensieri: decisi di uscire e camminai senza meta finché non mi apparve davanti una via pedonale piena di atmosfera, con case dipinte di rosso acceso e blu cobalto e giallo ocra e verde brillante. E personaggi di cartapesta di dimensioni umane che ti osservano dai balconcini di ferro ricamati. E murales che coprono pareti di case ed edere rampicanti da cui escono lucertoline spaurite, la convivenza tra i turisti fai da te con lo scatto facile del telefonino di ultima generazione e i locali. Una signora su una bicicletta un po’ datata con le borse della spesa. Il vecchietto che esce da una porta di legno dipinta troppe volte con il sacco dell’immondizia, un gruppo di italiane chiassose nel solito rito dei selfies a tutti i costi. Ero finita a La Boca, un vecchio quartiere di pescatori,galeotti e prostituite, oggi completamente riabilitato. 

È giunta l’ora. Ritorno a San Telmo, Chiedo ad un passante la direzione del bar ed eccoli, i tangheri, l’anima, il cuore, il fuoco, la sensualità, che ballano in strada, tra milonghe che raccontano una vita. Mi siedo davanti al tavolino di metallo tondo di brutta fattura e incollo gli occhi su una coppia avvinghiata in una milonga di sensualità pura. Cerco di seguire la loro storia quando una figura si presenta davanti. Gambe lunghe affusolate, lunghi capelli castani, occhi profondi, occhi…..mi fermai, la fissai e dissi: “Hai gli stessi occhi di nostro padre! “. 

“Lo vuoi un bicchiere di Malbec?” mi chiese.  “Certo” risposi e « Quanta sensualità nei ballerini di tango” dissi. 

“Eh si, anche troppa” rispose lei, sedendosi accanto a me. “Mia madre era una ballerina come queste, la milonga era la sua vita. Si conobbero appena nostro padre arrivo’ a Buenos Aires quasi vent’enne e lui se ne innamorò perdutamente. Dopo poco più di un’anno nacqui io e papà mi disse che fu il coronamento di un amore. Vivevamo felici, papà preparava manicaretti deliziosi e la casa profumava sempre di liquirizia fresca. Si ballava al ritmo delle milonghe. La radio era sempre accesa e la musica a tutto volume. Furono otto anni d’amore. Un giorno mamma torno’ a casa felice. Il suo manager aveva firmato un contratto per una tournée internazionale, tre mesi in giro per il mondo a suon di milonga. Papà era triste ma felice per lei. Io andavo a scuola, il pomeriggio lo passavo nel retro del ristorante dove papà lavorava: avevano messo una sedia ed un tavolino dove potessi disegnare e studiare. Passarono tre mesi e mamma cominciò a non dare più notizie. Tornò a casa un giorno, dopo cinque mesi, mi abbracciò e mi disse di mettere sul letto i miei vestiti e i giochi preferiti che saremo partite a breve. Papà mi venne incontro con gli occhi gonfi e mi disse: “non ti preoccupare , piccola, faremo anche le vacanze e Natale insieme”. Partii con mamma ed il tanghero, non riuscì mai a chiamarlo in altro modo, anche se con me era gentile. 

Vivevamo a poche centinaia di metri da casa e mi accorsi che papà soffriva, vedendo la persona che amava e non potendola più avere. Un giorno mi disse: “non posso più stare qui. Ho bisogno di dare un senso alla mia vita ed aiutare altri. Parto per l’Africa, ma tu mi raggiungerai presto”. 

Aspettavo le vacanze per stare con lui, amavo l’odore di farina che si alzava dalle mani scure dei bambini e delle donne mentre impastavano il pane, ridevamo, guardavamo insieme gli infuocati tramonti africani. Ed ho amato la Thailandia, Roberto, lo zio buono, i massaggi sotto l’azzurro infinito del cielo che si confonde con l’azzurro infinito del mare. E mi sono divertita gli ultimi anni a New York, ad accogliere i clienti con il mio inglese sempre più fluente. Lo stavo per raggiungere in Italia, dovevo aspettare di finire gli esami e sarei finalmente venuta in Italia, il paese che ho sempre sognato perché il mio sangue arriva da lì. Quando nostro padre mi disse che doveva rientrare in Italia subito non capii, ormai aveva raggiunto il successo, era uno degli Chef più apprezzati di New York, il New York Times aveva scritto un’articolo “The Chef of the Year” definendolo “Mr. Liquirizia, the only one. Il genio italiano nei piatti di New York.“ Non capivo questa sua nuova ambizione. Seppi solo, poco prima che ci lasciasse, che oramai la malattia se lo stava portando via e lui voleva lasciare qualcosa al suo paese natio”. 

Ora, sorella, ti devo dare quest’ultima lettera che mi è appena arrivata dall’Italia.”. 

Confusa più che mai aprii il foglio…..in sottofondo una altra coppia ballava una milonga. 

“Carissima Sara, adorata figlia mia, Ho conosciuto tuo padre al ristorante. Lui si era appena diplomato alla scuola alberghiera ed aveva iniziato a lavorare nel ristorante dove io facevo il part time come cameriera per pagarmi gli studi. Fu un flirt breve ma molto intenso. Al pomeriggio,quando tutti se ne andavano, mi chiamava per farmi assaggiare un dolce che aveva inventato e con la scusa mi portava nel retro dove tra farina, zucchero e profumo di liquirizia facevamo l’amore fugace con la paura di essere scoperti.  Quando mi resi conto di essere incinta lui era già partito. Una proposta di lavoro in Argentina per lui, così giovane ma ambizioso e con quella voglia smisurata di scoprire. Non sapevo dove fosse diretto, mi aveva salutata con un “magari le nostre strade si incroceranno di nuovo. Buona fortuna per i tuoi studi. Io vado nella terra dei Gauchos, delle sterminate pampas, degli asado accompagnati da chimichurri, dei sensuali tangheri e dei Malbec robusti dall’intensa aromaticità”.

In una terra così sconfinata non ho mai saputo dove cercarlo. 

Lo scorso anno passai davanti al vecchio mulino abbandonato in fondo alla strada, luogo magico della mia infanzia: le grandi ruote si erano fermate ormai troppi anni fa quando i proprietari erano passati a miglior vita ed i figli rincorrevano il sogno metropolitano, lasciando morire un tale gioiello nelle loro insulse liti per l’eredità. Vidi un folto gruppo di operai che lavoravano. Mi dissero che qualcuno lo stava ristrutturando e che a breve sarebbe rinato come ristorante stellato. All’inaugurazione fu invitato tutto il paese. Tartine di ogni foggia e colori e profumi. Biscotti dolci e salati con tutti i frutti del mondo. Cestini di bignè ed insalate di fiori, rametti di pane croccante e pizzette alla cannella…. e nell’aria un celato odore di liquirizia. Mentre sto preparando il mio piattino mi vedo porgere un bicchiere di rosso: “spero ti piaccia il Malbec”. Lui era lì, un quarantenne non bello, ma con quel portamento e sorriso di chi ha raggiunto ciò che voleva. “Bentornato, dopo vent’anni, ne hai fatta di strada”. “. Il mondo è meraviglioso ma è bello chiudere il cerchio”.  

Anche noi ora stiamo chiudendo il cerchio. 

Ora sai tutto, figlia mia, torna in Italia quando puoi perché il tuo ristorante ora ha bisogno di te. 

7 risposte

  1. Brava! In questo racconto sento la tua passione e la tua vocazione nel voler trasmettere quello che hai dentro un vero “centrifugato salutare” dei tuoi viaggi che traspira in ogni parola.

  2. Hi Laura,
    Its been a really long time since I saw you last
    You havent let the grass grow under your feet, despite all this virus lockdown
    It seems like you havent been affected by them
    Good for you
    You have been to lots of interesting places since I met you
    Who are you travelling with these days ?
    No more big yellow trucks
    I can only read you blog entries on my PC and using google translator
    Your last entry was really long, I havent read it all, but I will
    Happy travels
    Regards
    Derrick

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