Camerun (e ritorno in Nigeria)

Partiamo attraverso foreste verdissime, tra palme e alberi di quel colore brillante che sa di linfa, di vita. Foreste rade si alternano a foreste fitte: cinquanta sfumature di verde. Peccato che tutto sia così difficile da fotografare perché i finestrini devono stare chiusi, il camion viaggia velocissimo, rincorrendo una scorta che sfreccia, con fucili puntati su entrambi i lati della strada. Le strade sono belle, come se fossero state asfaltate ieri, le più belle strade dell’Africa sinora. Ma la cosa veramente strana è che non incrociamo neanche un mezzo (macchina, moto, camion o altro, assolutamente nulla). I pochi villaggi attraversati sono completamente abbandonati, 63 km fino a Mamfe’ senza incontrare nessuno, un paesaggio da fiaba, (naturalmente per quanto riguarda la natura, non posso dire lo stesso per i villaggi abbandonati), senza anima…..o forse le anime si nascondono, nella foresta incantata

 

 

Ma torniamo indietro, a ieri pomeriggio. Dopo l’uscita dalla Nigeria, alle 17, abbiamo consegnato i passaporti all’addetto della frontiera del Camerun. Dopo più di un’ora inizia l’appello. L’entrata è un piccolo passaggio, attraverso una pesante barriera fatta di grossi sacchi di sabbia, una vera trincea, con tanto di elmetti posizionati per ingannare lo sguardo, come se i militari fossero lì, pronti alla difesa. In realtà  al confine con il Camerun, c’è il controllo dei passaporti ma la frontiera aprirà domani, non si sa a che ora. Il controllo passaporti finisce verso le 19:00, dopodiché ci viene detto che possiamo piantare le tende lì, in attesa che apra la frontiera, nel compound dei militari. 

Il terreno è sconnesso, in pendenza. L’unico posto in piano è dietro il camion. Mentre mi preparo a piantare la tenda arrivano due militari ed iniziano a dirci che non capiscono come mai ci hanno lasciato passare, questa è una delle frontiere più calde e pericolose del paese in questo momento. Oramai siamo qui e non possiamo tornare indietro, ma comunque io non posso piantare la tenda così vicino alla scarpata, perche’ i ribelli quando sparano è dal bosco sottostante. Devo spostarmi indietro di una decina di metri…..i proiettili non arrivano così lontano! Ok, il messaggio è chiaro! Per farvi capire la situazione vi faccio vedere alcune foto, una che mostra il bosco da cui attaccano e l’altra, veramente rubata, che mostra come sia l’entrata del gabbiotto controllo passaporti, un vero bunker di sacchi di sabbia. E la foto della mia tenda, non molto lontana dall’entrata. 

 

 

Arrivano altri militari. Alle 20:30 siamo tutti nelle nostre tende, senza sapere, domattina, a che ora potremo partire. Fortunatamente la mia SIM card nigeriana funziona ancora perfettamente, così posso trascorrere il mio tempo chattando e leggendo. Non sono una che va a dormire presto. Ad un certo punto, alle 23:45 esatte sento un gruppetto che sta chiacchierando in francese e la parola Lampedusa. Mollo il telefono e mi posiziono in fondo alla tenda da dove riesco a sentire perfettamente le conversazioni. “Aba….. (non capisco bene il nome) è arrivato a Lampedusa. Quando arrivi ti danno soldi, da mangiare, puoi telefonare. È un paese ospitale. Basta con questo lavoro, qui lavori e lavori, capisci? Poi ti chiamano a qualsiasi ora, devi correre, come adesso, perché un gruppo di stupidi bianchi ha deciso di voler venire qui. E non ti pagano di piu’. Io voglio andare in Italia, sono stufo di fare il militare qui! “ . “Ma il viaggio costa. Aba….ha pagato un sacco di soldi.”. “Si ma poi arrivi e ti aiutano, ti danno tutto, ti danno soldi!”. Sono decisamente sconvolta, non stiamo parlando di gente che muore di fame. Certo, per carità, sicuramente il lavoro del militare ha i suoi rischi (qui più che in altri posti), ma quello che mi fa pensare è il concetto del…..ho un lavoro, per duro che sia, nel mio paese, dove vivono i miei amici, i miei affetti, anzi sono qui e dovrei sentire dentro di me quella missione di difendere la mia famiglia, la mia patria, ma il mio sogno è andarmene, partire  per un luogo (ed hanno nominato Lampedusa, quindi con la chiara idea dell’Italia), perché lì MI AIUTANO, Mi danno tutto, soldi , cibo, telefono. Non ho mai sentito parlare di lavoro, o altro! Ho sentito qualcuno, dietro, che diceva : “e lì si possono bere alcolici senza problemi”! Poi il discorso torna sulla nostra situazione. “I Nigeriani non dovevano farli entrare!”. “Loro così sono a posto, hanno scaricato tutta la responsabilità su di noi! Imprecando in francese: Merde!!! Merde!!!. E adesso cosa facciamo? Domattina dovremo scortarli, ma fino a dove? Ora siamo noi responsabili di questi bianchi! Ma nessuno glielo ha spiegato che qui è pericoloso? “. 

Ed ora come si fa a dormire?

Al mattino le ore sembrano interminabili, tutti si muovono, i telefoni passano da una mano all’altra. 

Arriviamo a Manfe’ in poco più di mezz’ora e veniamo accompagnati in un Hotel. Sono le dodici. 

La scorta si apposta intorno all’hotel. Ci danno le chiavi di alcune stanze. Le “suite” hanno mobili datati, occupati da anni da tarme. Mi capita un divano rococò. Ci vorranno un paio di birre, neanche fresche (qui non c’è corrente, i generatori vengono accesi solo qualche ora alla sera), per evitare di pensare alla polvere che si nasconde tra quei cuscini: fortunatamente il mio sacco a pelo crea una barriera e mi accoglie tra le sue braccia così preziose in questa parte di viaggio. I grandi bagni sono scrostati, senza rubinetti. Arriva una ragazza dal lento passo africano e consegna mezzo secchiello di acqua a persona per lavarci, da gestire preziosamente fino a domani. 

I militari sono gentili, solo alcuni hanno il volto teso. Pare davvero che siamo un grosso problema per loro. Chiediamo di prepararci la cena. La Signora ci propone pollo,carne e pesce con riso,platano o patate fritte. Compiliamo il foglio, sarà esattamente diviso in tre. L’ordine parte alle 16:00 per cena alle 19:00. Alle 21:30 arriveranno metà pollo e metà pesce, metà platano e metà riso. Alla nostra domanda la ragazza risponderà : “non abbiamo carne”. “Va bene, ma perché oggi hai detto che c’erano pollo, carne e pesce?”. Abbiamo messo il pollo o il pesce al suo posto” “si, ma perché non hai detto che non avevi carne?”. “Abbiamo pollo o pesce”. Stessa, identica situazione con le patate fritte. Lo sguardo è normale, quasi interrogativo nei miei confronti: “ma che domande fai?”. Certo che ragionandoci su, ha ragione lei. Allergie a parte, noi siamo davvero troppo viziati ed abituati a scegliere e variare secondo il nostro umore. Io sono un po’ cambiata dopo aver lavorato un anno in un ristorante. Oggi tendo più a chiedere : “cos’avete di pronto o qual’e’ il piatto del giorno”, così da avere anche una garanzia di freschezza e genuinità. Ma qui giustamente la gente non è abituata a scegliere, la scelta è un concetto straniero, di paesi dove ci sono alternative, la possibilità e la libertà di scegliere. Ed e ‘ proprio sul concetto di libertà che sogno un giorno di scrivere un libro, ma quella delle piccole cose, non quella con la L maiuscola, su cui si sono scritti fiumi di parole. Il piccolo esempio di prima: per noi la scelta Solo tra due piatti non è grande libertà, mentre per gran parte della popolazione della Nigeria la scelta tra due piatti rappresenta un sogno, La Libertà, quella con la L maiuscola. 

Ed eccoci qui, a soli 60 km dal confine, relegati in un hotel, con 7 persone di scorta, che diventeranno 14 al mattino. C’è fermento, nel “castello dorato” dove ci hanno messo, tutti parlano e nessuno conferma. Le ore passano lente, come se le lancette avesse perso l’orientamento, non c’è davvero nulla da fare, a parte fotografare un’auto nel cortile e sovrappopolarci nell’unico angolo della terrazza dove c’è una fievole connessione rete.

 

Ma i due leader monopolizzano la zona cercando una soluzione ad un problema ora diplomatico. Il Camerun accusa la Nigeria di averci dato l’ok ad uscire da una frontiera estremamente sensibile “politicamente “, mentre la Nigeria dichiara di averci fatto uscire perché l’atmosfera “elezioni” è imprevedibile. La situazione è questa: tutti sono al corrente del pericolo Boco Haram che sta devastando tutto il nord del paese (tra l’altro una curiosità, ho appena scoperto che Boko Haram significa :”Western Education is sinful”: “l’educazione occidentale è piena di peccati”). Ma purtroppo in questi paesi un altro orrore è in corso, al confine Camerun-Nigeria, più a sud, dove siamo ora. 

Quest’area è in guerra dal 2016, i ribelli possono attaccare da un momento all’altro. Il rischio di attentati e di sequestri da parte di gruppi armati è alto. I ribelli sono i separatisti inglesi, gli “Amba Boys”, che con il tempo si sono sempre più radicalizzati. Anche se i loro leader sono in gran parte all’estero e in parte in prigione, i separatisti continuano a chiedere l’indipendenza dalle regioni anglofone e cercano di autoproclamare simbolicamente la Repubblica di Ambazonia. La situazione sembra fuori controllo, e ci sono anche gruppi di delinquenti che si accaniscono a loro volta sulla popolazione. I separatisti sono quella parte anglofona (circa un quinto della popolazione) che è tagliata fuori dal resto del paese. La mancanza di infrastrutture e di investimenti, fino ad un forte tentativo di imporre il sistema scolastico francese, emarginano quest’area del Camerun. 

D’altra parte noi dobbiamo pur passare da qualche parte anche perché l’opzione traghetto Calabar-Douala non è più perseguibile. Solo pochi giorni fa la pedana che assicura l’entrata in nave dei mezzi è crollata. Non vi annoierò ulteriormente, ci vorranno altre 6 ore prima della decisione della polizia del Camerun.” Troppo pericoloso, vi scortiamo nuovamente fino al confine da cui siete entrati, vi timbriamo l’uscita dal Camerun, tornate in Nigeria, e poi non è più nostra responsabilità”. 

Si rifà la stessa strada dell’andata, stesso tempo record. Peccato che giunti alla famigerata frontiera la Nigeria non ne voglia sapere di “riprendersi” il gruppetto di visi pallidi. Dovranno passare altre 38 ore prima che la situazione si risolva. Ed in tutto questo tempo il compound miliare camerunese non apre più le sue porte, la scorta se ne va e noi restiamo lì, in attesa di una risposta. Come baraccati, raminghi,  apolidi. Non so perché ma non ho paura, forse la stanchezza, o forse perché ho deciso di vivere intensamente questi momenti, ma non solo non mi faccio prendere dal panico, cerco anche di socializzare con le persone. La gente locale è molto gentile, una signora prepara i pesci alla griglia, con una salsa piccante deliziosa, mentre un paio di chioschetti vendono bibite, anche se non fredde, perché qui la corrente (da generatori) c’è solo qualche ora alla sera. Accampati sotto un caldo afoso, lerci, in attesa.

 

 

Finalmente, dopo ben 38 ore, la Nigeria decide di lasciarci rientrare (e, “udite, udite” senza un nuovo visto!): avremo un lasciapassare di sette giorni, perché, come previsto, sabato (tra 2 gg) ci saranno le elezioni (spostate la scorsa settimana), e quindi tutte le frontiere saranno chiuse.

Mi sembra incredibile, sono contenta di avere ancora un’opportunità di vedere la Nigeria e, poiché la nostra strada verso nord non attraverserà grandi città e nulla ma proprio nulla di turistico, mi aspetto davvero le forti emozioni da viaggiatrice, fuori dai sentieri battuti.

Ed eccoli, finalmente, i villaggi, quelli immersi in una natura arida e ribelle, quella natura dispettosa,  dove la vita scorre ancora più lenta. La strada verso nord è a tratti sconquassata, ma quello che sconvolge sono i posti di blocco. Un’amica decide di contarli, dopo che ognuno di noi ha messo un po’ di soldi nel cappello per la scommessa. In 520 chilometri ci saranno 46 controlli, ci fermeranno 22 volte e ben 12 volte ci verrà chiesto un regalo od una bibita. 

Molti villaggi sono ancora di capanne, silenti fino a quando si sparge la voce ed all’improvviso orde di bambini che schiamazzano, correndo dietro di noi.

Andando verso nord la popolazione è principalmente islamica. I mercati sono sempre più scarni. Troveremo solo cipolle e pomodori, qualche sparuto avocado e uova e tantissimi peperoncini molto piccanti, rossi, verdi e gialli.  Per il resto i locali mangiano principalmente cassava (detta anche manioca o yuca).

La carne esposta ha un colore marron prugna, quella già cotta sembra suola da scarpe, e comunque è principalmente “Bush meat”:  carne di animali selvatici, della foresta.

La sosta forzata di altri due giorni sarà a Serpe, un paese dove potremo montare le tende in un grande cortile chiuso. Ci sono alcune camere nel complesso, ma saranno occupate dai militari arrivati per le elezioni di domani.

 

 

Sotto un sole afoso altri due lunghissimi giorni, con  il coprifuoco che inizia alle 22:00 della sera del venerdì fino a sabato sera. Niente elettricità, tutto chiuso. Cucinerò per tutti: alla vista della mia (per me tristissima) pasta con cipolle e uova, tutti urleranno felici: “Whawwww Carbonara”. Mi prenderò gli applausi del caso: non val la pena spiegare che la carbonara non ha la cipolla ed ha invece il pecorino ed il guanciale, cioè praticamente tre quarti degli ingredienti diversi da quelli che ho utilizzato! Questo è il bello di viaggiare con amici provenienti da paesi dove il culto del cibo non è così importante. Di negativo c’è però che anch’io purtroppo sono costretta a mangiare quello che loro cucinano….e, tra australiani, tedeschi e inglesi, i più numerosi, non c’è nessun parente di Gordon Ramsay o Harald Wohlfahrt, anzi, come diceva qualcuno: “Ho visto cose nella vita che non avrei mai voluto vedere!”. 

Tornando alla Nigeria, mi hanno detto che il paese vende elettricità al Ghana, dove tutto funziona perfettamente H24. Peccato che in Nigeria la corrente ci sia normalmente solo dalle diciannove e sparisca ogni mezz’ora o poco più e qui, ci sia solo ed esclusivamente dalle diciannove  alle ventidue. 

Siamo vicini ad un’entrata del parco  , il Gashaka-Gumit National Park, al confine con il Camerun, che ospita un’emozionante biodiversità che comprende leoni, scimmie, elefanti, bufali ed ippopotami. In realtà ci faranno solo vedere il piccolo museo. L’entrata principale è a oltre 60 chilometri all’interno, occorre prenotare molto prima, restare almeno un paio di giorni e, soprattutto, avere molta fortuna per l’avvistamento degli animali. Mi sembrano tutti completamente disorganizzati: i due addetti che aprono il museo dichiarano di aver visto solo scimmie in tutta la loro vita. Qui sorge inoltre la montagna più alta della Nigeria, detta Chappal Wadi (quasi 2500 metri di altitudine).

Sulla strada si vede di tutto, i soliti camion stracarichi e poi le moto, tante, trombettanti. 

Ho deciso di premiare i top. Medaglia di bronzo e d’argento. 

 

Ma il vincitore della strada e’ lui, il perfetto centauro equilibrista che sorpassa a tutta velocità gestendo due persone davanti, sul serbatoio e ben tre dietro. Un meraviglioso sorpasso a 192 denti.

Il confine “ non pericoloso” che unisce la Nigeria al Camerun si trova a circa 600 km a nord di Ekok (dove siamo ora noi e dove ci sono i ribelli separatisti) e più o meno la stessa distanza a sud dei famigerati terroristi di Boko Haram. Ecco dove andremo. Sarà un lungo viaggio di tre giorni, perché, mentre la prima parte della strada è ancora parzialmente asfaltata, dopo, una carrettiera di montagna ci accompagnerà fino alla meta. 

La strada sale e sale, siamo in montagna, il paesaggio è verde, con le cime che si ergono dietro una bruma scura ed un cielo che promette pioggia. I villaggi sono case di fango con il tetto in lamiera: il caldo afoso della piana lascia il posto al tipico clima delle nostre Alpi in una uggiosa giornata di fine estate. 

 

Oggi mi è successa una storia incredibile.

L’uomo a destra della foto è un ristoratore, non so l’età ma non è un ragazzino. Mentre sta friggendo i suoi dolci con uno dei figli, chiedo cosa posso avere per la colazione. « Jollow rice, riso con salsa di pomodoro e un po’ di sugo di carne ». Perfetto! Mi arriva un piatto enorme, basterebbe per tre persone. Mi faccio portare un altro piatto e divido in due, spiegandogli che è davvero troppo per me e quindi può servire il resto a qualcun altro. Alla fine del pasto chiedo il conto. Mi risponde: “Non voglio soldi, Madam!” “Perché? È il tuo lavoro, lo fai per guadagnare soldi per la tua famiglia!”. “Si, Madam, ma non voglio soldi perché sei mia ospite. Oggi ho visto per la prima volta dei bianchi e sono molto contento. Lo racconterò alla mia famiglia e agli amici“. Cosa dire? Avrei voluto avere più tempo e conoscere la sua famiglia. Posso solo ringraziarlo più volte e dirgli che la sua famiglia deve essere orgogliosa di lui. 

 

La strada continua sempre più lenta, un giorno faremo 25 km in 10 ore! A Guroji ci fermeremo per la colazione. Io giro per il mercato tra i pochi banchetti di carne grigliata (per me troppo grassa e gommosa) e chiedo dove posso trovare del pollo. Nessuno ha del pollo oggi, non importa, mi accontenterò del solito piatto di riso. La strada è dissestata, solo le motociclette sfilano più o meno veloci. Noi saremo obbligati a fermarci su un plateau a circa 8 chilometri da Guroji,  dove pianteremo le tende in una radura prima che diventi buio. Al mattino presto la nebbia lascia intravedere le montagne, l’aria è frizzante. Ma una incredibile sorpresa mi attende. Un gruppo di persone si avvicina al nostro accampamento. Il vecchio saggio con una radiolina degli anni ‘80 e musica africana, davanti ad una signora in abito da festa. E lui, con la gallina in mano, che fa qualche passo avanti e mi dice: “Welcome, benvenuti, questa è per voi”. Lo guardo perplessa (sono le sette del mattino e non ho ancora preso il caffè!). “Ieri cercavi del pollo da mangiare in paese! Benvenuti, benvenuti “. Che dire?

Cercherò di spiegare che apprezzo la loro generosità e ringrazio, sono molto contenta di averli conosciuti, ma la mia gioia sarà che il pollo rimanga con loro: lo mangeranno pensando a me! Che gente straordinaria!

 

 

La bellezza di queste persone così spontanee e con lo sguardo dolce mi riempie di quella serenità fatta di valori veri, che avevo dimenticato. Purtroppo vedo dietro questa esperienza anche un velo di profonda tristezza. Quando leggo che dei criminali come Boko Haram (e naturalmente non solo loro), reclutano persone nei villaggi, ora capisco. La gente qui è incredibilmente buona e ingenua, quindi facilmente manipolabile. I professionisti del ricatto qui trovano terreno fertile. 

E finalmente eccolo, il famoso confine, lo sperduto meraviglioso posto di frontiera. È la prima volta nella mia vita di viaggiatrice che trovo un confine con gente così calorosa. Di solito è tassativamente vietato fotografare. Qui, il responsabile, si lascia ritrarre orgoglioso davanti alla bandiera. E, sotto un diluvio improvviso, è strano per noi vedere il poliziotto che scrive sul grande registro i nostri dati, aiutandosi nel chiaroscuro del gabbiotto di legno, con una pila intrattenuta dal mento. 

 

Rieccoci in Camerun.

Il Camerun sa di fitte foreste pluviali, di sabbia rossa, di profumi di platano e di pesce grigliato che invade le strade. 

Le piogge sono secchi pesanti di acqua che si appropria della terra e rende le strade difficilmente percorribili. I guadi diventano fiumi, e non resta che armarsi di quella pazienza africana, in attesa che l’acqua si assorba. Ed ecco  che c’è chi si inventa il lavoro: trasportare il più debole,  incapace di affrontare la corrente d’acqua.

 

Non appena spunta un pallido sole, la gente corre a lavare i panni o fare un bagno nel fiumiciattolo che scorre.

I villaggi, sempre pieni di bambini pronti per un selfie!

 

 

Foumban si trova a 70 km nord-est di Bafoussam, ed è considerata una città d’arte con uno dei principali musei di arte e cultura tradizionali.

 

Il Cameron  è una democrazia, con in carica quello che noi chiameremmo un dinosauro della politica, un arzillo signore di 86 anni in carica da ben trentasette (37) anni, cui vanno aggiunti i sette anni precedenti quando ha ricoperto il ruolo di primo ministro. Tra molte proteste e accuse di brogli, lo scorso 7 ottobre 2018 è stato riconfermato. 

I tedeschi fondarono qui, in epoca coloniale, il primo nucleo urbano e commerciale. Tutto passò poi in mano francese ed infine nel 1960 ottenne l’indipendenza.

Yaoundé è detta la città dai sette colli. Sembrerebbe una cornice perfetta, ma la grande recente espansione ha portato la nascita di un’architettura esuberante e disordinata, totalmente incoerente. 

 

Il Monumento della Riunificazione di Yaoundé, è un’opera interessante composta da vari elementi. Davanti, un anziano con cinque bambini in braccio che regge la fiaccola nazionale, simbolo della saggezza e del rapporto tra tradizione e modernizzazione. Dietro, i due serpenti che si arrotolano fino in cima formando un’unica testa, costituiscono un altro monumento, che rappresenta la riunificazione del Camerun, francofono e anglofono, in un unico Paese, avvenuta nel 1961.

 

 

Ma la storia che sto per raccontarvi è una brutta esperienza vissuta, con un gran lieto fine. Immaginate di trovarvi in una delle capitali più movimentate dell’Africa, Yaoundé (oltre 2 milioni di abitanti), di camminare nel centro, zona mercato, dove migliaia di venditori sventolano la loro merce, tra musiche e gente che spinge e corre. Apro il mio cellulare per guardare la direzione da prendere, e, stupidamente, dopo il consulto, lo ripongo nella tasca esterna dello zainetto che normalmente tengo di fronte. Dopo circa trecento metri, ho un dubbio, cerco il cellulare e…voilà, la tasca aperta mi dà la risposta! Disperazione pura: è con questo cellulare che scrivo tutte le mie note, faccio tutte le mie foto per il mio blog e, da più di un mese, non ho potuto scaricare le foto su iCloud. Insomma, una parte del mio viaggio è volata nelle mani di qualcuno, che avrà come unico interesse cancellare tutto. Penso che capiate la mia disperazione. Rabbiosa e con gli occhi iniettati di sangue torno indietro, mi piazzo in mezzo al mercato e comincio ad urlare a squarciagola : « mi è appena stato rubato un cellulare. Per me è più di un normale cellulare usato, ha un valore affettivo. Lo rivoglio. Se me lo trovate sono disposta a pagare 500dollari! Avete capito? Spargete la voce, sapete bene che un cellulare usato non vale quella cifra, per cui datevi da fare. Io mi siedo qui e aspetto un’ora ». Inizia il fermento, tanti corrono, qualcuno si avvicina per solidarietà, altri mollano le loro cose, forse alla ricerca. Ad un certo punto si avvicina un ragazzo, mi dice di seguirlo, poco distante, in un cortile. Ha trovato chi l’ha rubato, ma non può venire ora perché c’è polizia in giro. Voglio almeno la foto che si tratti davvero del mio cellulare. Mentre parliamo arrivano altri due ragazzi ed il tipo si allontana. I due sono forse trentenni, uno con jeans e maglietta bianca, l’altro bermuda e t-shirt militare. « Stai cercando il tuo cellulare? Noi siamo poliziotti! ». « Sentite, non mi interessa chi siete, ho promesso 500 dollari a chi mi ridà il cellulare ». « Ehi, noi siamo poliziotti. È il nostro lavoro, il nostro onore, non vogliamo soldi, vogliamo aiutarti! Dacci un’ora di tempo! ». Ormai sono disperata, il tipo che mi sembrava avesse informazioni è sparito ed è tardi, io devo fare la spesa perché stasera devo cucinare per il gruppo. Dico ai ragazzi che non li credo ma comunque mi troveranno tra un’ora davanti al supermercato, semmai avessero davvero informazioni. Ed eccoli, puntuali, all’uscita del supermercato. « Abbiamo bisogno di più tempo! ». Oramai rassegnata dico: « Fate quello che volete, io devo andare a cucinare. Sono nel Centro Foyer XX,  fino a domani ». Ebbene, non ci crederete, ma meno di due ore più tardi, la proprietaria del Foyer mi chiama dicendo che ci sono due poliziotti che mi vogliono vedere. E davanti a me trovo 64 denti bianchi che sorridono con in mano il mio cellulare. « È il nostro lavoro, il nostro onore! ». 

Piango dalla felicità, e poi chiedo mille volte scusa perché ho sempre dubitato sia sul fatto che fossero davvero poliziotti sia che potessero ritrovare il mio cellulare. Non vogliono soldi, li costringerò a prendere una parte dei soldi dicendo che potrebbero essere miei figli e quindi possono fare un regalo alle loro madri. L’unica cosa che mi chiedono è: « mi dai il tuo indirizzo e-mail così ti mando la foto del regalo che compro? ». Anche la proprietaria del Foyer prende i loro nomi e promette di scrivere al loro capo, così come farò io.

 

La strada verso la foresta pluviale di Dja è  circa 200 chilometri di sterrato, una vera pista, percorribile solo nella stagione secca, quindi da metà novembre a inizio marzo. 

Una capanna in Africa è come il cappello di un prestigiatore: escono miracolosamente decine di bambini e ci si chiede come possano stare così numerosi in uno spazio così angusto. 

 

L’incontro con i Bakas è di una dolcezza infinita. Mi hanno detto che « pigmei »  è considerato dispregiativo dagli indigeni,  comunque sto parlando di quel popolo che vorrebbe vivere orgogliosamente nella foresta fluviale. La Riserva faunistica Dja, è parte integrante delle foreste pluviali del bacino del Camerun e Congo. Trascorrere la giornata in mezzo alla natura in un villaggio è pace pura, anche se vi anticipo che purtroppo ci sono anche seri problemi, quali l’alcoolismo e l’AIDS. 

L’Unesco ha iscritto questa immensa zona patrimonio mondiale nel 1987, dichiarando che la maggior parte della sua superficie è inviolata e ci vivono centinaia di specie di mammiferi, tra cui molti minacciati a livello globale, come i gorilla di pianura, difficilissimi da avvistare in mezzo ad una foresta fitta ed impenetrabile. Ci vorrebbero settimane di cammino con gente locale che apre la strada con i machete. E neanche così si garantiscono gli avvistamenti: molti ricercatori stanno arrivando in quest’area, che non è ancora sviluppata al turismo. Non ci sono strutture ricettive, si può solo mettere la tenda all’entrata del parco, come abbiamo fatto noi,  senza servizi, a parte comprare un po’ di secchi d’acqua per rinfrescarsi dal caldo umido pesante. 

Molti Bakas qui sono la seconda generazione di sangue misto, tra i “pigmei” ed i Bantu. Un detto locale dice   “Un ‘pigmeo ama la foresta allo stesso modo in cui ama il proprio corpo”. La foresta è la dimora fisica e spirituale. Nomadi di nascita, sono oggi brutalmente costretti a essere relegati in un piccolo territorio, dopo essere stati sfrattati (e sembra incredibile) a causa di progetti per la tutela dell’ambiente. Ho sentito che sono proprio le grandi organizzazioni che li vogliono lì, come se fossero in un piccolo zoo. Immaginate un uomo abile nelle tecniche di caccia (arco, lance, frecce, reti), che viene costretto a restare fermo in un luogo asettico, di poche decine di metri. L’erosione dell’identità è una conseguenza della perdita della terra e del loro contatto fisico, in una lotta pari per la sopravvivenza. Le comunità non possono più cercare le erbe medicinali della foresta, su cui prima facevano affidamento e stanno perciò anche perdendo quelle grandi conoscenze farmaceutiche tradizionali. Molte terre abitate dalle comunità “pigmee” sono ricche di legname e minerali. Ed ecco che i taglialegna e gli ambientalisti si contendono brutalmente i diritti sulle foreste restanti, senza minimamente pensare a chi ci vive ed è l’unico che ne avrebbe diritto. 

I Bakas sono splendidi, affettuosi, socievoli ed aperti, la lingua stranamente non è quasi una barriera perché molti parlano francese, ma la particolarità è che i giovani purtroppo parlano solo la lingua locale (mi sarei aspettata l’opposto). Qui il concetto di tempo è così astratto e totalmente privo di significato.

 


 



 

La ragazza della foto è Rose, ha diciassette anni ed allatta la sua seconda bambina. Quando le chiedo del/dei  padre/i dei suoi figli mi dice che non sa chi siano. 

Nella società pigmea è sempre il maschio che cerca la femmina. Una donna con cui chiacchiero mi dice uno stupendo aforisma Baka che tradotto dal francese suona: “E’ l’antilope che va all’acqua e non viceversa!”, ed è sottinteso che l’acqua, fonte di vita, è donna. 

Nel matrimonio dei Pigmei vige la parità di diritti tra uomo e donna pur nella diversità dei compiti, la donna sceglie dove sarà fatta la capanna, l’uomo impasta il fango e costruisce, la donna aiuta portando l’acqua. Rigorose norme sociali gestiscono i rapporti tra marito e moglie. Non ci possono essere matrimoni tra cugini fino al 5° grado. Ed anche il numero dei figli deve essere costante in base al numero di abitanti del villaggio, al massimo 80 individui : è la legge della sopravvivenza del gruppo nella sua zona di foresta. Per permettere questo, se da una parte c’è una “selezione naturale rigorosa” imposta dalla “legge” della foresta che porta la mortalità infantile (0-5 anni) a oltre il  40%, c’è un’altra regola che è data sia dall’astensione dai rapporti sessuali tra una coppia da quando la donna è incinta fino all’età di 2-3 anni del bimbo, sia dall’uso di preparati vegetali (medicina tradizionale), che regolano la fecondità della donna e in certi casi anche dell’uomo. 

È molto interessante anche l’educazione dei figli, che spetta ad entrambi i genitori fino ai 6 anni, poi alla donna (per le femmine) e all’uomo (per i maschi). 

Le pratiche religiose dei pigmei sono incentrate sugli spiriti della foresta. E l’anima del defunto trasmigrerà all’interno del corpo di un elefante.

In questo piccolo villaggio di sei capanne vivono quattro famiglie e circa 56 persone. La vita è determinata dal clima: si attende la stagione della pioggia perché solo così la terra darà i pochi frutti che nutriranno tutta la famiglia. La mancanza di un più vasto territorio di caccia sta diventando il problema, perché loro hanno la caccia per la sopravvivenza nel sangue.

Ed ecco che poi mi spiegano l’importanza delle palme, da cui ricavano l’olio, ma purtroppo anche quell’orrendo “whisky” che sa di alcool puro e che li uccide lentamente. 

L’odontol è un alcool tradizionale prodotto a partire dall’olio di palma, con zucchero e scorza di Garcinia lucida (essok). È detto anche gin o whisky africano, è un alcool molto forte ed economico. 

Daniel mi ha accompagnato (con Robert) durante la mia giornata. Gentile, pronto a rispondere alle mie domande, mi ha seguita costantemente, indicandomi la strada da prendere, vegliando sulla mia sicurezza e restando pazientemente seduto in un angolo mentre io chiacchieravo ore e ore con la gente del villaggio. Un vero Baka, da sempre. Diciottenne, un figlio da una donna che vive in un altro villaggio, lontano lontano, dice lui. “Quanti anni ha tuo figlio?”. “Non mi ricordo!” mi risponde con un’aria dolce e sorniona. Per questo mi spiacerà molto quando lo rivedrò alla sera, dopo che ha ricevuto la paga e la mancia della giornata, vagare ciondolante, trascinando le sue corte gambe come un macigno, sotto l’effetto di quell’alcool maledetto. Un paio di ragazzi lo strattonano, minacciandolo: “è l’ultimo avviso. Se bevi ancora non lavorerai più per noi!”. E lui cade e si rialza, per ricadere dopo qualche metro. Il mattino lo vedo in un angolo, mi saluta. Gli dico che sono delusa, che la mia mancia non era per l’alcool, mi risponde: “mi piace bere. Au revoir, Madame!”. Ciao, Daniel, ti auguro tutto il bene possibile e comunque te lo ripeto nella tua lingua: “Giocò giocò “, grazie, grazie, per avermi fatto conoscere la tua gente. 

 

La meraviglia di partire alla scoperta di itinerari nuovi, completamente fuori dalle rotte turistiche, ci porta verso il confine con il Gabon attraverso la foresta pluviale. Oltre 250 chilometri di natura, con la pista rossa a volte  così stretta e dissestata che occorre fare un paio di manovre per passare. Quando grandi fronde coprono la strada, dobbiamo purtroppo segare dei rami per aprire il varco. I villaggi sono davvero sperduti, capanne o case in fango con il tetto di lamiera. E di fronte alla casa la tomba di famiglia dove riposano i propri cari. 

 

Ma quello che sembra un mondo incantato in realtà nasconde orribili ombre: nei villaggi lungo la via, la gente è seduta fuori dalle capanne. Alle tredici del pomeriggio uomini e donne con la bottiglia in mano: il letale alcool locale è anche nei loro occhi. Ho provato a scattare una foto ma ho ricevuto insulti violenti.  Centinaia di bambini innocenti corrono gioiosi con semplici giochi: bastano un paio di scatolette di sardine usate, qualche pezzo di legno ed un bastone di bambù per renderli felici. 

Quanto dolore in questo quadretto senza futuro. 

 

E poi la corruzione, regina dei poveri. Il poliziotto che ci chiede i documenti cercherà per ore di spillarci soldi dicendo che dobbiamo pagare una tassa locale! Abbiamo tempo e pazienza: diciamo che pagheremo solo dopo la ricevuta che mostreremo alla frontiera. Dopo due ore di attesa, ci renderanno i passaporti, senza pagare, naturalmente. Nel frattempo, un paio di ragazzi mi danno il loro numero di telefono ed indirizzo, chiedendomi di contattare organizzazioni caritatevoli che inviino loro dei soldi. “Per cosa?”. L’alitata di whisky è seguita da un mormorio: “per aiutare i nostri bambini”. Che tristezza. Purtroppo ho visto i due opposti: da una parte una folla di bambini ingenui e dolcissimi, dall’altra un folto gruppo di maschi muscolosi, stravaccati sotto la tettoia con una sigaretta ed una bottiglia e gli occhi rabbiosi alla vista dei bianchi. 

E poi l’unica anima gentile: un signore su con gli anni, timoroso, che mi chiede dolcemente di dove sono. Chiacchieriamo piacevolmente per tutto il tempo della sosta. E scopro che questa era una immensa foresta vergine piena di animali. Tantissimi elefanti, ora quasi estinti perché il bracconaggio feroce degli ultimi vent’anni si è nutrito avidamente di avorio, l’oro della foresta pluviale. Ed i gorilla, dice, molto richiesti dagli zoo del mondo intero: quelli sopravvissuti si nascondono. Il resto (scimmie, gatti selvatici, ecc.) sono diventati il cibo di una popolazione locale che cresce più velocemente dei frutti della natura. Una lotta contro il tempo : sembra che nessuno possa fermare questa inarrestabile fine. Con un nodo alla gola, la strada diventa sempre più impervia. Saremo costretti a piantare le tende per strada, al buio. La temperatura è perfetta di notte, un rovescio leggero di mezz’ora pulisce l’aria. Al mattino siamo pronti per partire quando due ragazzi si avvicinano e ci chiedono se vogliamo comprarlo. Il caimano è stato appena catturato a qualche decina di metri da dove eravamo accampati. 

 

Alla fine della strada una brutta sorpresa ci attende: sapevamo che c’era un fiume, senza ponte, ma tutti ci hanno assicurato che in bassa marea lo si può attraversare senza problemi.

Purtroppo siamo in bassa marea, ma l’acqua è troppo alta e melmosa e risulta impossibile raggiungere l’altra sponda. Saremo costretti a tornare indietro e rifare quel lungo viaggio in mezzo alla natura.

Ad Akon, una cittadina, finalmente un hotel, l’Afamba, con standard africani, ma dopo tanto tempo una vera doccia (anche se fredda), fa riscoprire quanto sia importante l’acqua.  Purtroppo qui, come in  tutti i villaggi attraversati, la gente è piuttosto aggressiva. « Les blancs, donnez-moi l’argent! ».  

 

 

 

 

Nei villaggi i ristoratori  preparano il pranzo, “Bush meat, carne della foresta o carne selvatica” e cassava, o le immancabili frittelle

 

 

 

Ed i banchetti espongono la loro merce, principalmente cipolle e pomodori, tutti venduti all’unita

Ma, parlando di cibo, non si può non assaggiare un tipico piatto Camerunese, l’ndole’ con gamberetti, una specie di cima di rapa, dal delizioso gusto amarognolo,  mischiata con della polenta di mais bianco  cui va aggiunta (a parte) una piccantissima salsa che risalta il gusto dolce dei gamberetti: una vera delizia per il palato. Ed i lunghi bastoni di manioca avvolti nelle foglie di banano: una vera leccornia per i camerunesi. 

 

In Camerun, a parte i dolcissimi Bakas, i pigmei della foresta, che sono curiosi e totalmente aperti al dialogo,  i poliziotti di Yaoundé ed i bambini, la maggior parte della gente è aggressiva e inospitale, forse uno dei popoli peggiori incontrati in questo viaggio. Non solo si arrabbiano davanti ad un obiettivo, ma ovunque gruppi di uomini, muscolosetti, seduti davanti alle capanne, spesso con la bottiglia in mano, urlano: “Bianchi, datemi i soldi, i soldi”. Ed in tantissimi villaggi le donne offrono bambini. “Prendilo, e dammi soldi”: scene orribili. Ancora una volta, purtroppo, vorrei che i tanti falsi buonisti di casa nostra, anziché  fare polemiche dall’attico di Montecarlo, al terrazzo di Sanremo, dal loft di Torino alla villa in campagna, facessero un bel viaggio in questi posti (naturalmente non nel Club Med o nell’Hilton di turno), per rendersi conto della realtà.

Lascio questo paese con l’amaro in bocca. Da una parte i Bakas mi hanno dato una grande lezione di vita, dall’altra il disgusto di molta parte della popolazione.

Alla prossima….in Gabon

 

 

 

 

4 risposte

  1. Articolo straordinario, leggendolo mi sembrava di essere con il gruppo, e’ una descrizione incredibilmente vivida ed efficace di questa straordinaria avventura! Laura diventi sempre più brava sia come scrittrice che come fotografa!!!

  2. Fascinating,horrendous,sad and joyful all in one .Thank you Laura for sharing your impressions and experiences of your latest ‘adventure ‘ !I really like the ‘angle’ of your photos too, each photo tells a story .
    Stay safe ,
    Un abbraccio 🤗
    Yvonne

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