I Viaggi di Lauretta

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Fuori Asmara, la vita scorre con ritmi diversi: carretti trainati da asinelli, pastori che seguono il gregge, mucche al pascolo e dromedari, a volte anche solitari, lungo i margini della strada.

 

 



Ad un centinaio di chilometri a sud di Asmara, si trova Adì Quala, l’ultima città in territorio eritreo, che si raggiunge percorrendo un’altra delle strade costruite dagli italiani all’inizio del XX secolo.

Lungo la strada,  Mendefera merita una sosta. Il nome Mendefera è decisamente eloquente, significa: “chi si è azzardato a toccarla!”. La cittadina ha un bellissimo mercato,  il sabato,  dove perdersi. I venditori sono molto più disponibili della capitale, sorridono, e sono felici  di scambiare qualche parola con noi. Amo i colori e gli odori della vita reale, le tante sfumature di un’Africa sempre uguale, sempre diversa. Qui tutto è disordinatamente perfetto, tra spezie, farine, semi, verdure, frutta, simboli religiosi, vestiti, oggetti per la casa

 

Sul lato opposto della strada principale, si trovano i sarti, uno accanto all’altro: sembrerebbe una lezione di cucito di una scuola d’altri tempi. Sono gentili  e disponibili a farsi immortalare nel loro momento creativo.

 

A pochi chilometri, si incontra la vivacità del mercato del bestiame, dove contadini e mercanti si scambiano asini, dromedari, pecore e mucche, in estenuanti trattative. Il mercato è la vera espressione della cultura locale, rappresenta perfettamente il carattere e la forza di questa gente, nella difficile lotta per un’esistenza decorosa.

 

Il paesaggio verso Adì Qala cambia, con vallate e colline brulle ma piene di vita: gli appezzamenti di terreno sono coltivati con un duro lavoro, per rendere fertile una terra che sicuramente non è generosa di suo. Aratri antichi scuotono un suolo come facevano i nostri avi oltre cent’anni fa: per noi un ritorno al passato, quello che ci raccontavano i nostri nonni.

 

 

 

 

E ancora un monumento-ossario  in ricordo di quei soldati caduti per la patria (ai caduti di Adua 1 marzo 1896) .


La strada per Decamere’ ritorna al monotono paesaggio di un colore unico, con qualche punta di viola dei meravigliosi alberi di jacaranda

 

 

Un altro ricordo del passaggio degli italiani.

 


Decamere e’ una tipica, vivace, cittadina eritrea.

 

 

una panetteria, con l’intenso profumo del pane appena sfornato,  che si diffonde nell’aria


Fuori, il paesaggio si arricchisce, quando si arriva nella valle dei sicomori, gli splendidi alberi secolari, dall’aspetto regale, che punteggiano un deserto arido. Sono maestosi, possono crescere fino ad un’altezza di 20 metri , con un tronco che può raggiungere un diametro di 1,5 metri. L’albero iconico dell’Eritrea, il sicomoro, è anche riportato sulla banconota da 5 Nakfa. Bellissimo il contesto tra il panorama roccioso, i cactus giganti ed i sicomori; se poi si vede anche un dromedario che riposa, il quadro diventa la perfetta rappresentazione di questa parte del paese.

 

 

 

Si riprende la strada per Adì Keyh, detto villaggio rosso. 

Le persone qui non sono gentili, si arrabbiano se vuoi fare una foto e, francamente, non trovo quell’accoglienza di Asmara o altri posti.

 

 

Meno male che stiamo solo una notte, qui, tappa obbligata per partire alla visita di Qohaito.

l’acqua e’ vita

 

 

 

A Qohaito, c’è un luogo che conserva le vestigia della civiltà aksumita. Tra gole, vallate  ed altipiani, si trovano tombe antiche, in mezzo a  viste spettacolari, in quello che potremmo chiamare : “ Gran Canyon  d’Eritrea”

Il trekking che scende nel canyon, porta ad una parete rocciosa, dove si possono ammirare rappresentazioni di animali e scene di caccia, di probabile origine paleolitica.

 


Per raggiungere Massaua si percorre una strada  molto tortuosa, un capolavoro di ingegneria civile, costruita dai nostri geniali connazionali. L’unicità del tragitto è data dal fatto che, in circa centoventi chilometri, si passa dai 2400 metri di altitudine della capitale, a livello del mare. La strada è panoramica, con viste interessanti su campi coltivati e villaggi. 

 

 

un gruppo di babbuini saltella, forse alla ricerca di cibo.

 

 

In tutti i paesi che attraversiamo, alcuni bambini si avvicinano urlando: “money money! “. Spesso sono studenti, nella loro bella divisa colorata. E’ una gran tristezza ritrovare quell’Africa che chiede soldi ai turisti.

Lungo la strada si incontrano molti camion, che portano il bestiame ai mercati o mandrie che si spostano. 

 

e dromedari


Faremo molte soste, soprattutto al ritorno, in villaggi dove c’è il mercato.
Nel mercato ci si perde nel mare di veli colorati, peccato che molte donne non si  lascino fotografare: sono bellissime, avvinghiate in metri di stoffa,  da dove emergono volti temprati dalle tempeste del tempo, custodi di memorie antiche, e mani segnate dalla fatica,  che hanno dato senza misura, ricevendo in cambio solo il silenzio degli anni.

 


 

una sosta semplicemente per acquistare acqua

 


 

 

Altra sosta per  gustare un’ottimo yogurt della casa

 

Per vedere altre opere Italiane (Fonte Acqua Termo Minerale) e la ferrovia, che univa la capitale a Massawa, completamente abbandonate

 


E per ammirare folte mandrie di dromedari

 

 

 

L’ultima parte della strada è un deserto roccioso.

Ed anche qui l’Africa e l’Italia si intrecciano:  il sacrario di Dogali onora i 500 soldati italiani della Colonna De Cristoforis, uccisi nel 1887 dagli Abissini, guidati da Ras Alula. Chissà se sapete che “Piazza dei 500”, di fronte alla Stazione Termini di Roma, è intitolata proprio a loro.

 

 

Poco più avanti, sorge uno dei tanti ponti costruiti dagli italiani. In questo caso si tratta del ponte a tre arcate, dedicato al Generale Menabrea, con una grande scritta in piemontese: “Ca custa lon ca custa” (costi quel che costi). Questa scritta riflette perfettamente lo spirito determinato dell’epoca coloniale italiana.

 

 

Massawa sorge sulle coste assolate dell’Eritrea, affacciata sul mar rosso. Una città sospesa nel tempo, carica di storia e silenziosa come una tomba.

Massawa fu contesa per secoli, prima sotto il dominio ottomano, poi egiziano. Durante l’epoca coloniale italiana, la città conobbe uno sviluppo straordinario: con il suo grande porto, ed i palazzi in stile neoclassico e art deco’, la città divenne uno dei più importanti centri portuari dell’Africa orientale. Ma i bombardamenti nella lunga guerra d’Indipendenza dell’Eritrea contro l’Etiopia (1951-1991), culminata con la tristemente famosa “Operazione Fenkil”, la battaglia massacrante del 1990, hanno lasciato ferite profonde, mai curate. Oggi, avvolti in un silenzio spettrale, i vicoli della città vecchia mostrano le vestigia di quel passato, tra facciate eleganti, archi in pietra corallina e splendidi balconi in ferro battuto.
Gli scheletri degli Hotel coloniali si affacciano sul mare come fantasmi del passato.
Ma, nonostante la desolazione, Massawa continua ad avere un fascino unico, con il suo silenzio che racconta più di mille parole. 

La decadenza dei suoi palazzi continua a resistere, sotto cieli intensi ed i profumi forti delle spezie che escono da porte divelte, dove la gente continua la sua vita normale, come se non ci fosse un passato, come se non ci fosse un futuro.

Massawa è per i viaggiatori più curiosi, un luogo che invita alla riflessione, alla fotografia, all’ascolto del passato i cui echi salgono tra le rovine, verso un cielo che si tinge di blu intensi, una ferita aperta, una testimonianza vivente della storia coloniale, della guerra e dell’abbandono.

 

 

 

 

La piazza principale di Massaua ha caffè e bar, gremiti da signori locali (naturalmente solo uomini….Massawa e’ molto mussulmana!), che guardano il passaggio o la bella Moschea di fronte (unica opera nuova, totalmente ricostruita, grazie ai fondi degli arabi del golfo). Nella pesante calura del pomeriggio, la piazza è vuota e si anima solo al tramonto, quando la temperatura diventa accettabile.

 

 

Passeggiare nel centro della vecchia Massawa è scoprire palazzi la cui architettura ha forti influenze ottomane, vere opere d’arte con arcate e finestre in legno intagliato. 

 

 

 


Nulla è stato toccato,  dopo i bombardamenti della guerra, e le persone continuano a vivere dentro questi palazzi divelti, accampati tra colonne di immane valore artistico e tralicci barcollanti che potrebbero cadere da un momento all’altro.

 


Una passeggiata in un ambiente che sembra un set cinematografico, una sorta di Cinecittà, dove però è tutto straordinariamente vero e reale.

Guardate che meraviglia!

 

 


A Massawa, al tramonto, i bar mettono fuori i tavolini di plastica: e’ il momento perfetto per ammirare il tramonto da quello che è stato un punto di approdo per viaggiatori e mercanti.

 

il porto

 


In pieno centro, si trova Sallam, un dancalo che cuoce i pesci ed il pane nei forni a pozzo, tipico sistema di cucina yemenita: una cena straordinaria, non solo per il palato, ma anche perché i tavoli sono all’aperto, in mezzo ad un’atmosfera decadente, ma dal fascino antico che avvolge spirito e corpo: Massawa diventa magica!

 

Tra le varie etnie, mi avevano consigliato una visita ad un accampamento di Rashaida, nomadi di origine araba. Pur rappresentando solo il 2% della popolazione eritrea, sono famosi perché non solo non rispettano le regole (non vanno a scuola, non fanno il servizio militare), ma sono grandi contrabbandieri: il loro legame con i clan della penisola araba, li rende famosi commercianti “di tutto”, oltre, naturalmente, allevatori di pecore e dromedari. Una società unica, dove le donne indossano un particolare burka nero o rosso, con perline colorate. Qualcuno ci aveva parlato della loro ospitalità, in un tendone con il rito del tè……In realtà, quando siamo arrivati, si sono  presentati il capo tribù ed una signora anziana, che hanno subito iniziato a chiedere soldi, molti, per una foto. Un brutto, bruttissimo approccio, che ci ha fatto desistere dal trascorrere un po’ di tempo con loro.

Ad una decina di chilometri da Massawa, si trova il Gurgusum Beach Resort, frequentato da turisti o lavoratori stranieri, nei giorni di riposo

 

 

In un angolo remoto del mar Rosso, al largo delle coste dell’Eritrea, si trovano le isole Dahlak, uno dei gioielli del paese, un arcipelago di isole coralline immerse in acque trasparenti, decisamente lontane da ogni forma di modernità, un paradiso dimenticato dal turismo di massa, dove il tempo sembra essersi fermato e la natura regna sovrana. Delle circa 350 isole, solo 4 sono abitate, il resto sono lingue di sabbia bianca e cespugli, acque limpide e spiagge isolate, dove campeggiare in stile Robinson Crusoe. L’arcipelago fu un crocevia di commerci tra Africa, Arabia ed Asia.  Le giornate sono scandite dai movimenti del sole e della luna, con il vento come unico segnale di vita, che soffia leggero, alzando quel profumo di salsedine che mi piace tanto. Lasciate le scarpe per cinque giorni, si cammina su sabbia fine, a tratti con piccoli cristalli di corallo che scrocchiano, come un meraviglioso tappeto dei desideri. L’ospitalità è spartana, ma autentica ed il viaggio diventa un’esperienza preziosa per chi cerca isolamento e meraviglia naturale. E mi viene in mente un anziano eritreo incontrato ad Asmara, che in perfetto italiano, alla mia domanda su come fossero le isole Dahlak, rispose semplicemente : « Là dove c’è il mare, c’e’ un mondo che l’uomo ha dimenticato ».
È raro (e straordinario) trovare un silenzio così pieno, caldo, vivo, rotto solo dal richiamo rauco di un uccello o il respiro lento del vento.  Intorno,  si può esplorare la vita marina facendo snorkeling tra le barriere coralline. Il campeggio sotto le stelle, in una natura incontaminata, è un sogno che si avvera.

 

che meraviglia osservare il mare, onnipresente e ipnotico.

 

Dahret, Dehil, Baradu, Durgella….. le isole spuntano come piccoli  funghi in un mare immenso.

Dehil e’ una delle pochissime isole abitate. Quando si arriva sulla spiaggia, gruppi di ragazzi accorrono. L’isola è divisa in due villaggi, nel mezzo si trovano la scuola e “la clinica”. I ragazzi che ci circondano saranno gli unici che si lasceranno fotografare ed io ne approfitterò, coinvolgendoli nei miei amati selfie.


 

 

I villaggi sono mussulmani e  decine di uomini stanno riparando, a mano, enormi reti da pesca in un lavoro di squadra certosino: mi sarebbe piaciuto fotografarli e descrivere questo momento, ma sono stata brutalmente cacciata: “no photo!”. Così come in tutto il resto del paese sull’isola, le donne si coprono e rientrano in casa al nostro passaggio. Per me l’isola si trasforma in una sorta di carcere, dove percepisco l’idea che le donne siano schiave di un sistema che le vede fattrici e lavoratrici, solo doveri e niente diritti…..qui ritorna l’Africa che, purtroppo, conosco bene.

 

 

 

L’isola è deserto, arido. A qualche centinaio di metri, si trovano un paio di armamenti militari abbandonati. Ed i ragazzi accorrono, per posare, come eroi o, semplicemente, per combattere la noia dell’isolamento.


 

 

Rientrando,  passiamo dalla scuola, gremita di bambini, ma, anche qui, non è possibile fotografare.

Poco più avanti una bellissima ragazza dall’aria triste, ci mostra la “clinica”: una stanza e’ “la farmacia” dove si distribuiscono le medicine, l’altra, che fotografiamo furtivamente, e’ dove vengono ricoverati i malati.

 

Lei è un infermiera in missione sull’isola, da sette mesi. Quando le chiedo quanto tempo dovrà stare qui, mi risponde : “non so, forse tre anni”. Abbassa lo sguardo e vedo un profondo velo di tristezza. Mi viene spontaneo chiederle : “sei felice qui?”. Mi guarda fissa negli occhi e risponde semplicemente: “io sono di Asmara, e sono una cristiana cattolica”. Una risposta semplice, ad occhi bassi, che, all’improvviso, mette in discussione le mie certezze: “questo non era il paese dove convivevamo serenamente le varie religioni? Con orgoglio avevo scritto che c’era la libertà ….di culto, per il resto….no comment!”. Forse dovrei semplicemente scrivere:

“libertà? ….no comment!”.

Tornati sulla nostra isola « privata » perché ci siamo solo noi, ritroviamo il nostro team che  ha pescato: stasera ci sarà una fantastica cena !

 

Quando lasciai le isole, mi voltai più volte. C’era qualcosa che non riuscivo a portare con me: forse il silenzio, forse la pace, forse solo la certezza che quei luoghi esistono davvero, anche se il mondo sembra ignorarli. Le isole Dahlak non sono un posto da visitare, sono un posto da vivere….. e da ricordare.

 

A circa 70 km a sud di Massaua, si trova il sito archeologico di Adulis. In un tempo passato, quando l’Eritrea era un punto d’incontro tra le culture orientali e quelle africane, Adulis era un importante snodo commerciale per le carovane che attraversavano il Mar Rosso, una fiorente città aksumita, che ebbe il suo massimo splendore tra il III ed il IV secolo, prima di iniziare la triste fase di declino. Rovine, chiese, strutture dell’epoca, dovrebbero sorgere proprio qui: la guida spiega che per ora è stato scavato solo il 2%. Certo e’ che, per noi che siamo abituati a siti archeologici immensi, questo è una gran delusione.

 

 

 

 

L’ultimo giorno è nuovamente dedicato alla elegante ed armoniosa Asmara per ripensare ancora una volta ai nostri geniali urbanisti ed architetti che hanno lasciato, in Africa, uno dei migliori esempi al mondo di città in stile Art Deco.

E scoprire ancora la generosità di molte famiglie, che condividono momenti di gioia con estranei. L’invito ad un battesimo e’ l’amore per il prossimo senza barriere: queste foto, per me, racchiudono la gioia del viaggio, un momento d’incontro che dura poco ma resta nel cuore

 


La passeggiata in città conferma un bell’involucro, e tanta nostalgia in chi ha vissuto l’epoca gloriosa. Per il resto, in  Eritrea, ho trovato un’Africa che fatica, arranca, lotta per la sopravvivenza, un’Africa piena di bambini, come diceva De Gregori…… venuti al mondo come conigli, un Africa dove molti giovani sono totalmente smarriti e dove i vecchi guardano al passato con nostalgia, come se nel periodo dei colonizzatori, in realtà ….”si viveva meglio quando si viveva peggio!”.

Bye bye Eritrea, nostalgica piccola Italia

Ma aspettate a chiudere, perché, dopo aver visto la carrellata di foto di persone incontrate, vi voglio lasciare alcune mie riflessioni

 





 

 


 

e ancora



 

 

Per finire, non posso dimenticare loro, i miei amati dromedari.

 

 

Il dromedario, nella cultura e nella simbologia, rappresenta cose diverse:

1. La forza interiore e la resistenza, perché riesce a vivere nei deserti più duri senza acqua per giorni, quindi ha una immensa capacità di affrontare lunghi periodi di difficoltà

2. adattabilità: ha una grande capacità di adattarsi a condizioni estreme

3. spiritualità: nel deserto il dromedario simboleggia i percorsi dell’anima

4. pazienza: ha un passo lento ma costante e non si ferma mai

5. Pensando al passato, (ma ancora oggi) chi aveva dromedari,  aveva un mezzo prezioso per il commercio e gli spostamenti: ecco che il dromedario diventa simbolo di prosperità

ed infine

6. il dromedario è anche simbolo di saggezza, perché sa aspettare il momento giusto, senza sprecare energie.

Dedico agli Eritrei il mio pensiero :

i dromedari avanzano tra le sabbie come arche vivi di resistenza e speranza, portando nei loro occhi la memoria di terre senza confini e nei loro passi il ritmo eterno della vita che non si arrende. Nel loro cammino silenzioso si cela il segreto dell’esistenza: andare avanti, anche quando tutto sembra perduto .

Cerchiamo di esseri tutti  dei dromedari! 🐪 🐪

 

 

Vi aspetto al prossimo viaggio. Stai tuned

4 risposte

  1. complimenti, cara Lauretta, per il tuo splendido reportage, non solo fotografico, ma ricco e preciso anche di osservazioni e notizie storico geografiche. Altro che aspirante reporter!!
    Le tue frasi finali sui dromedari, animali che mi piacciono moltissimo, mi infondono un po’ di coraggio in questo momento di disorientamento a causa del peggioramento della mia gamba. Cercherò di essere un dromedario !! Grazie , sei una fantastica compagna di viaggio. Chissà se riusciremo ancora a condividere qualche altra bella avventura ! Un grande abbraccio. Laura Cignoli

    1. Grazie, cara Laura! E’ stato un viaggio interessante, anche con le contraddizioni di un paese con molte questioni irrisolte. Spero ti riprenda presto e che avremo altre occasioni per condividere ancora dei bei viaggi insieme

  2. Cara Laura, certo che quando scrivi di Africa mi si spezza un po’ il cuore, perche’ nelle tue parole sento fortissimo quel dualismo che tu stessa definisci insanabile, fatto di accecante bellezza e di libertà mutilate. Tocca in profondo, così come immagino profondo il tuo amore per questo paese. E’ davvero incurabile il “mal d’Africa”.
    Immagino anche come tu ti sia goduta la citazione “piemontese” e la presenza del mezzo Iveco…
    Ho molto apprezzato le foto dei residuati architettonici coloniali, fragili merletti d’ossa fermati dal tempo a traforare i tramonti. Poesia pura.
    Tanta gioia sulla strada amica.

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Lauretta Trinchero

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