C’è un momento, poco prima che il treno rallenti il passo, in cui il Rajasthan si rivela come un mosaico di sabbia e pietra, interrotto qua e là da cupole dorate e da villaggi che sembrano sospesi nel tempo. E poi, all’improvviso, appare Jodhpur: un abbraccio azzurro ai piedi di una montagna di arenaria, sorvegliata da uno dei più imponenti e spettacolari forti dell’India, arroccato su una collina alta circa 125 metri che domina la “Città Blu”.
Dal bastione del Mehrangarh, il bollente vento del Thar soffia forte e asciutto. Qui i muri sembrano nati dalla roccia stessa: cicatrici di battaglie, tracce di antiche dinastie. Camminando nei corridoi del palazzo, ci si perde tra finestre traforate, troni di velluto consumato, sale dei palanchini reali.
Eppure è quando ci si affaccia sulle terrazze che si comprende davvero Jodhpur: un mare blu che si allunga sotto, come onde immobili che hanno sostituito la sabbia.
Il colore delle case non è un vezzo estetico: era un tempo un segno delle dimore dei brahmini, poi divenuto abitudine comune. Il risultato è una città che al tramonto diventa poesia: l’azzurro che si tinge di rosa e oro, il silenzio spezzato solo dai richiami dei venditori e dai canti che scivolano fuori dai templi.
Per chi ha l’avventura nel sangue e l’adrenalina nell’anima, e vuole vedere tutte le sfaccettature della città e del mitico forte, c’è una zipline con uno splendido percorso fatto di 6 linee: Tra voli e lanci, in novanta minuti volerai sopra i laghi Ranisar e Padamsar, le mura del forte e il parco ecologico Rao Jodha, godendo di panorami spettacolari della città blu e delle colline circostanti, con un’angolazione unica sulle antiche mura e sui bastioni del forte.
Il sole del Rajasthan brucia e colora di rosso e oro le mura del Forte di Jodhpur mentre ti avvicini al punto di lancio. Il vento è già lì, pronto a giocare tra i tuoi capelli, e il cuore accelera come un tamburo antico. Un respiro profondo, un battito, e ti lasci andare: voli.
Sospeso tra cielo e pietra, scivoli sopra cortili e torri che raccontano secoli di storia, mentre la città blu si apre sotto di te come un mare calmo e infinito. Ogni metro percorso è un dialogo tra paura e meraviglia, tra adrenalina e libertà. Il sole accende le finestre intagliate, e i bastioni sembrano vivere sotto di te, testimoni silenziosi di un brivido che attraversa le vene.
E quando il volo finisce, e i piedi toccano terra, il cuore batte ancora forte, gli occhi brillano di luce e il respiro racconta una storia che nessuna fotografia potrà mai catturare. Perché per un attimo sei stato sospeso tra tempo e leggenda, tra storia e sogno, e hai assaporato la vita nella sua forma più pura e intensa.
Nel cuore della città, la Clock Tower scandisce il tempo di un mercato che sembra non fermarsi mai.
Le mani affondano nelle spezie, l’aria profuma di cumino, curcuma e tè al cardamomo. Qui, tra i banchi di tessuti color zafferano e gli amuleti d’ottone, si assaggia l’anima di Jodhpur: un lassi dolce in quello che è considerato il miglior bar dove degustarlo. Il lassi è una bevanda tradizionale indiana, fresca e rinfrescante, a base di yogurt, acqua e spezie e frutta. È molto popolare in tutto il Nord dell’India. Cremoso e leggero, simile a un frullato denso, quasi un dessert. Molto rinfrescante, perfetto per contrastare il caldo del Rajasthan o di altre zone calde dell’India. Spesso servito in bicchieri alti, a volte guarnito con polvere di cardamomo o petali di rosa.
Ed ancora i colori e profumi del mercato
A Jodhpur, nascosti tra i vicoli polverosi, compaiono i baoli, gli antichi pozzi a gradini. Scavati nella pietra, sembrano architetture rovesciate: scale che scendono verso il ventre della terra, dove l’acqua un tempo rifletteva il cielo del deserto
E poi la passeggiata, tra i vicoli blu che sono un intreccio silenzioso di muri dipinti d’azzurro, che brillano sotto il sole del Rajasthan. Passeggiandoci dentro si respira calma, tra porte colorate, scalini irregolari e la vita quotidiana che scorre lenta. È un luogo dove il blu non è solo colore, ma atmosfera: fresca, quieta, quasi sospesa
Jodhpur va vissuta così, attraversando i suoi quartieri, con la testa all’insù
Ma Jodhpur non è solo frenesia. Fuori città la strada si fa polverosa. I campi arsi dal sole si allungano all’orizzonte, punteggiati da arbusti e acacie che sopravvivono al vento del Thar. Greggi attraversano la strada.
È lì, in questa terra che sembra ostile e invece pulsa di vita nascosta, che si incontra la comunità dei Bishnoi.
I loro villaggi appaiono come piccole oasi: capanne circolari di fango e paglia, ma anche mattoni, ordinate con una cura che trasmette dignità. Non hanno la monumentalità dei forti rajasthani, eppure raccontano un patrimonio di valori che sembra ancora più solido della pietra. Perché i Bishnoi non hanno lasciato in eredità palazzi, ma una filosofia: vivere in simbiosi con la natura, custodirla come parte della propria anima.
Camminando tra le loro case, il tempo si dilata. Le donne mungono e poi lavorano il latte, con gesti antichi, gli uomini tessono o lavorano la ceramica, i bambini rincorrono le capre e ridono. Tutto sembra avere un ritmo quieto, come se qui la modernità avesse bussato alla porta ma non fosse mai entrata davvero.
Un ragazzo mi offre un bicchiere di chai bollente: il profumo di cardamomo si mescola al fumo del fuoco all’aperto. Poco lontano, un gruppo di antilopi nere pascola indisturbato, gli occhi lucidi rivolti all’uomo senza timore. Per i Bishnoi questi animali sono fratelli, sacri quanto gli alberi che li nutrono. E non è solo una metafora: nel XVIII secolo, una donna di nome Amrita Devi si gettò contro le scuri dei taglialegna abbracciando un albero, e morì pur di salvarlo. Con lei caddero altri 360 uomini e donne. Da quel sacrificio nacque un insegnamento che ancora oggi attraversa i secoli: difendere la vita, anche a costo della propria.
I Bishnoi hanno una filosofia ben precisa: tutta la loro vita è permeata su 29 principi, stabiliti dal Guru Jambheswar (Jambhoji) nel XV secolo, dopo una grave siccità che lo portò a riflettere sul rapporto tra uomo e natura. Non sono semplici regole religiose: sono un codice etico e ambientale che plasma la vita quotidiana. Alcuni esempi: proteggere la natura, non abbattere alberi verdi, non uccidere animali, salvaguardare il suolo e l’acqua. E’ vietato consumare alcol e droghe, e’ vietato filtrare lo zucchero con tessuti che usino sostanze animali, si deve avere compassione verso tutti gli esseri viventi, semplicità nel vestire e nel vivere, praticare la carità, aiutare i bisognosi, parlare con onestà, non rubare, non mentire, evitare litigi e maldicenze, non spettegolare….. insomma, il mondo che tutti sognano.
Un grande senso di serenità aleggia, tra l’anziana di famiglia (95 anni) ed il resto della comunità.
Il sole del Rajasthan cala lento, dorando i campi aridi e le dune che circondano il villaggio. Nella corte di una casa Bishnoi, un uomo si siede, vestito di bianco candido, mentre le donne restano più indietro, sorridendo discrete.
Inizia a preparare, con gesti lenti e solenni, la amal sabha — la cerimonia dell’oppio.
Non è un atto clandestino né una ricerca di ebbrezza: è un rito comunitario, antico come la memoria del deserto. Una piccola quantità di oppio viene sciolta in acqua, e poi filtrato tre volte.
il primo sorso viene “dato” simbolicamente al Guru e agli dei, pronunciando formule di ringraziamento, e solo dopo viene bevuto da chi guida il rito e poi passato agli altri.
Alla fine il liquido scuro passa di mano in mano, sorseggiato con rispetto. “Bere insieme” significa molto più che condividere una sostanza: e’ accogliere l’altro, suggellare la pace, dare forma ad un legame.
La sensazione non è un’esplosione, ma un avvolgersi: un calore che si diffonde piano, rilassando i muscoli, rendendo la mente più morbida, quasi ovattata. Non porta euforia immediata, piuttosto una sorta di calma grave, una pesantezza dolce che trascina verso l’intimità e il silenzio
La contraddizione non sfugge agli osservatori: i 29 precetti dei Bishnoi proibiscono chiaramente l’uso di oppio. Eppure, nelle sabbie del Thar, la pratica ha trovato spazio come linguaggio simbolico di amicizia e riconciliazione. Non è la sostanza a contare, ma il gesto: un sorso che dice “sei il benvenuto”, “lasciamo alle spalle i rancori”, “facciamo memoria insieme dei nostri antenati”.
Nelle città l’oppio è illegale, sorvegliato, temuto. Ma qui, tra capanne di fango e alberi di khejri, resiste come frammento identitario: non tanto come droga, quanto come rito di ospitalità. Un po’ come il tè nelle steppe dell’Asia o il mate sulle Ande, l’oppio in Rajasthan diventa bevanda sociale, collante di comunità.
E mentre il cerchio si stringe, l’ospite che beve per primo sa di aver ricevuto qualcosa di più di una sostanza: ha ricevuto fiducia, onore, appartenenza.
E si riparte, su una strada che incrocia altri pastori con i loro grandi greggi, e camioncini pieni di gente locale che torna dal mercato.
Arrivare a Udaipur, dopo cinque ore di autobus sulle strade polverose del deserto, è come entrare in un’oasi. Palazzi color crema si specchiano nei laghi, le colline degli Aravalli abbracciano la città e il tempo sembra rallentare. Qui tutto è riflesso: l’acqua, la luce, persino i ricordi. Il City Palace domina dall’alto come un labirinto di marmo e mosaici.
Ogni finestra è un quadro sul lago Pichola, ogni cortile una storia sussurrata. In mezzo all’acqua brillano il Lake Palace e il Jag Mandir, palazzi che sembrano galleggiare come navi immaginarie.
“Da bambino guardavo le barche andare al Jag Mandir come fossero dirette in un altro mondo”, racconta Rajesh, tassista locale. “E ogni volta che passo di lì, torno indietro nel tempo.”
Nei vicoli l’atmosfera è un vortice: spezie che colorano l’aria, botteghe specializzate in miniature Rajasthani (con corsi disponibili),
negozi di abiti e orecchini che tintinnano, sarti chini sulle macchine da cucire.
Ed i luoghi di culto sono piccoli scrigni di grande bellezza, come questo tempio
Mi fermo a bere un chai e incontro Kamla, una donna che si è tolta il velo rosso per lavarlo nel fiume.
“Il velo è rispetto, non obbligo”, dice sorridendo. “Ma oggi molte ragazze scelgono diversamente.” Poco dopo, un gruppo di studentesse in jeans attraversa il vicolo ridendo. Due mondi che convivono, senza urti, come due fili intrecciati nello stesso sari.
“Il tempo qui non è fermo”, mi dice Meera, giovane guida che accompagna a scoprire i quartieri antichi. “Scorre più dolce. Forse è il lago, o forse siamo noi.”
Le terrazze di Udaipur sono un piccolo teatro sospeso tra cielo e acqua.
Immagina superfici bianche e levigate che si aprono come balconi sul lago Pichola, ornate da jali (le grate traforate in pietra) che disegnano ombre leggere al tramonto.
Molte terrazze sono intime, arredate con cuscini e lanterne che si accendono al calare del sole, altre invece scenografiche, ampie e destinate a ristoranti o caffè panoramici.
Un giro in battello a Udaipur regala la visione dei grandi protagonisti della città: l’elegante Lake Palace che emerge candido al centro del lago, come un sogno di marmo sull’acqua, e il maestoso City Palace che domina dall’alto la riva, distendendo le sue mura dorate come un abbraccio regale. Navigando tra riflessi e silenzi, si coglie la magia di una città-palcoscenico sospesa tra storia e bellezza.
E passeggiando tra gli stretti vicoli, quando mi fermo per lasciar passare le vere regine dell’India, quelle mucche sacre che non vengono neanche fermate in modo brusco, nemmeno quando cercano di entrare nelle hall degli Hotel,
incontro Anand, che ha vissuto in Italia (con lo zio, importatore di pashmina) che mi dice: “Udaipur e’la Venezia dell’India, non per i canali, ma per il suo cuore d’acqua. Il lago Pichola e gli altri bacini che circondano la città fanno da specchio a palazzi bianchi, havelis eleganti e terrazze fiorite, creando scorci che sembrano dipinti. Come Venezia, e’ un luogo in cui l’acqua diventa anima della città, riflettendo la sua storia e trasformando tutto in poesia”.
Il mio viaggio continua con il treno per Pushkar, una delle città più sacre dell’India.














































































