Dopo aver trascorso un mese nel caotico e frenetico nord dell’India, sono atterrata a Trivandrum, sotto un sole che brucia, ma con un silenzio irreale: un’India totalmente diversa. In comune con il nord solo i luoghi di culto dai colori accesi, onnipresenti.
Ma devo ripartire subito, direzione nord ovest.
C’è un punto, lungo la costa del Kerala, dove la terra sembra trattenere il fiato prima di tuffarsi nel Mar Arabico. È Varkala, un paese sospeso tra la devozione e il sale. Le scogliere rosse, erose dal vento e dal tempo, si affacciano su un orizzonte che ogni sera brucia d’arancio.
Sotto, la spiaggia di Papanasam accoglie i pellegrini che si bagnano per purificarsi dai peccati; sopra, i caffè e le piccole guesthouse servono chai e curry, ed i negozi vendono souvenir di ogni genere .
All’interno, gli ostelli si alternano a belle ville trasformate in boutique hotel.
Sono tutte addossate l’una all’altra, sorte in fretta per rispondere alla domanda crescente di posti dove dormire: i turisti non smettono di arrivare, sempre più numerosi ogni anno.
La vita qui scorre lenta: al mattino presto la spiaggia di sabbia nera e’ già presa d’assalto.
I pescatori svuotano le reti, un gruppo di stranieri si raccoglie in silenzio su un tappetino di yoga, gli influencers (o quelli che sognano di diventarlo), sono già lì, alla ricerca dello scatto “eroico”.
Ma dietro la pace, in questo luogo, si muove anche l’inquietudine. Le scogliere cedono, scavate dall’erosione e dall’abuso edilizio. L’erosione rosicchia ogni anno centimetri di scogliera, mentre nuove costruzioni avanzano, spesso oltre i limiti imposti. Gli ambientalisti avvertono che la “regina delle scogliere del Kerala” rischia di diventare vittima della sua stessa bellezza. I progetti di “turismo spirituale” avanzano troppo vicino al sacro, minacciando l’equilibrio fragile di questo luogo che ancora resiste tra spiritualità e consumo.
Quando il giorno finisce e il cielo si tinge di zafferano, Varkala sembra trattenere il fiato. La scogliera resta lì, maestosa e vulnerabile, come se sapesse che ogni granello di sabbia, ogni onda, ogni respiro, fanno parte della stessa preghiera al mare.
A poche ore di distanza, in treno,
ad Alappuzha, o Alleppey, come ancora la chiamano i più, il giorno non comincia con il rumore dei motori, ma con un gorgoglio d’acqua, un canto di uccello tropicale, un remo che fende piano la superficie del canale.
Le backwaters del Kerala sono un universo in sospensione. Cinquecento chilometri di lagune, fiumi e laghi salmastri che si intrecciano in una trama vivente: un labirinto d’acqua che si insinua nella terra, o forse è la terra che si arrende all’acqua. Qui il confine tra le due si perde, e con esso la fretta del mondo.
ci sono vari tipi di imbarcazioni che portano il turista lungo i canali.
Io salgo su una houseboat, una ketuvallam costruita interamente in legno di palma e corde di fibra di cocco. Antiche imbarcazioni da trasporto oggi trasformate in case galleggianti, complete di tetto in bambù, cucina e stanze che oscillano dolcemente con ogni onda. A bordo, il capitano, un uomo dalla pelle lucida di sole, mi offre un chai bollente. Mi dice che questa barca un tempo trasportava riso, non persone. «Ora portiamo chi vuole imparare a rallentare».
Penso che abbia ragione.: «Qui non c’è direzione. C’è solo il flusso».
La barca si stacca dal molo e tutto cambia.
Le risaie si stendono basse, verdissime, come tappeti di smeraldo.
Donne lavano i panni nei riflessi dell’alba, colpendo l’acqua con un ritmo antico, che sembra una preghiera.
Sulle rive, le case si specchiano nell’acqua, minuscoli porticcioli a far da confine tra il mondo di chi abita e il lento scorrere del fiume. Le mani si alzano in un saluto tranquillo a chi passa, come se il tempo fosse un ospite che non ha fretta. Un uomo aggiusta la rete da pesca, paziente, mentre un altro sorseggia il suo chai, osservando l’acqua che scivola sotto le palafitte, testimone silenzioso di una vita che sembra non cambiare mai.
Le case sono spesso solide, in muratura, dignitose nella loro semplicità. Ma ciò che sorprende chi arriva da fuori è un dettaglio che sembra quasi un gioco di contrasti: non c’è acqua corrente, eppure quasi ogni casa ha la televisione. È una contraddizione meravigliosamente indiana: il fiume scorre libero e porta la vita, i fili elettrici si arrampicano tra le palme e portano un altro tipo di flusso, quello delle immagini. Niente docce, ma telenovelas; niente rubinetti, ma antenne che spuntano dai tetti come fiori metallici.
A guardarle sono soprattutto le donne, nel pomeriggio o alla sera, dopo il lavoro domestico o aver lavato i panni. Storie di amori proibiti, di famiglie in conflitto, tragedie e speranze: le soap in malayalam sono il cuore pulsante della casa. La vita può essere dura, ma il sogno dell’amore rimane, leggero e ostinato, come una barca che scivola sul fiume, verso un orizzonte che promette sempre qualcosa di nuovo.
La giornata trascorre in silenzio. Non c’è nulla da fare, se non osservare: il volo di un airone, il lento galleggiare delle ninfee, il colore del cielo che cambia come una promessa.
Quando arriva il tramonto, il canale si accende di oro liquido. L’acqua si trasforma in specchio, e la houseboat sembra sospesa tra due cieli. Dal villaggio vicino arriva una musica lieve, un canto che si confonde con il verso dei grilli.
La mia barca si ferma per la notte, ancorata accanto a un villaggio invisibile. Lontano, qualcuno canta. Una voce che attraversa l’acqua, sottile come il vento.
È in quel momento che capisci che le backwaters non sono un luogo da visitare: sono un ritmo da imparare.
Un tempo interiore, fatto di silenzi, di lentezza e di luce riflessa.
Quando scendo, la terra mi sembra immobile. Il rumore del mondo, quello vero, appare improvvisamente troppo forte.
Nell’aria resta solo il profumo del cocco e dell’acqua dolce. E la sensazione, indelebile, di aver navigato dentro un sogno.
Lungo la strada per Kochi, per gli amanti delle spiagge, come me, suggerisco una sosta a Marari Beach, una lunga lingua di sabbia.
Kochi è una città fatta di suoni, odori e memorie che risalgono la costa del Malabar come onde lente. Arrivi e senti il mare: non solo il suo sale, ma la sua storia. Perché qui, nel cuore del Kerala, l’Oceano Indiano è sempre stato una strada più che un confine — e Kochi, per secoli, la sua porta più curiosa.
Sul molo di Fort Kochi, le antiche reti da pesca cinesi si sollevano al tramonto come ventagli giganti, immerse in un silenzio che odora di pesce e legno bagnato. Le corde scricchiolano, il vento passa tra i nodi, e ogni movimento sembra una preghiera al mare. È uno spettacolo che non appartiene ai turisti ma alla memoria stessa della città: importato dalla Cina nel XIV secolo, mantenuto dai pescatori locali come un rito quotidiano.
Kochi è un porto che ha imparato a parlare molte lingue. Qui hanno attraccato arabi, ebrei, olandesi, portoghesi e britannici : ognuno ha lasciato un’impronta, un nome, un profumo. Il risultato è un intreccio singolare di culture dove le cupole delle chiese si riflettono sulle acque accanto ai minareti e alle sinagoghe.
A Mattancherry, il vecchio quartiere commerciale, i magazzini delle spezie respirano ancora l’aroma del passato. Il cardamomo, la cannella e i chiodi di garofano sembrano impregnare le pareti, mentre i commercianti parlano sottovoce tra sacchi di juta e bilance d’ottone. A pochi metri, la Sinagoga Paradesi, costruita nel 1568, custodisce lampadari di cristallo e pavimenti di maiolica azzurra portati da lontano. È la testimonianza discreta di una comunità ebraica che un tempo era florida, ora quasi scomparsa ma mai dimenticata.
Sorge nel piccolo ma celebre Jew Town, il quartiere ebraico vero e proprio, una via tranquilla e suggestiva, piena di negozi di spezie, antiquari e case color ocra, dove l’odore di sandalo e cannella si mescola al silenzio delle storie dimenticate.
Fort Kochi è l’anima più vibrante e contemporanea della città. Le vecchie case coloniali dai tetti spioventi ospitano oggi boutique di design, caffè dal ritmo lento e gallerie d’arte. È qui che, ogni due anni, si svolge la Kochi-Muziris Biennale, la più grande mostra d’arte contemporanea dell’India.
Passeggiare tra i vicoli significa muoversi tra secoli diversi: un muro scrostato rivela un affresco antico, una porta in legno massiccio apre su un cortile pieno di installazioni moderne. I giovani artisti arrivano da tutto il mondo, attratti da un luogo che vive di contaminazioni e sperimentazioni. L’arte qui non è ornamento: è linguaggio, un modo di tradurre la città nel presente.
Sul lungomare bancarelle espongono la loro mercanzia
La passeggiata sul lungomare mostra anche i resti di un passato di culture diverse, tra questi, il cimitero olandese e la Cattedrale di S.Francis
Appena dietro le vie principali, la vita locale riprende il suo ritmo, vibrante di gesti quotidiani.
La grande “lavanderia” è un cuore che non smette mai di battere: qui gli hotel e le famiglie portano i loro panni, e tutto scorre con un’armonia quasi coreografica, dal lavaggio alla stiratura, in un ordine perfetto che profuma di sapone e di sole.
Una donna prepara il “pane” con gesti precisi ed armonici, mentre gli uomini sorseggiano un profumato chai.
A mezzogiorno, il caldo invita a rifugiarsi nei caffè lungo la Princess Street, dove il tempo sembra essersi fermato. Nei piatti, il Kerala si racconta: pesce al curry con latte di cocco, gamberi in salsa, appam (frittelle di riso) e succhi di mango densi come la luce.
A pochi passi, il Mattancherry Palace racconta una storia dipinta sulle pareti: divinità, battaglie, amori mitici. Ogni stanza è un frammento di una civiltà che non ha mai smesso di reinventarsi. Per le strade, risuona la lingua malayalam mescolata all’inglese dei viaggiatori e all’italiano di chi, come me, passa di qui in cerca di qualcosa che non ha ancora nome.
La strada panoramica da Kochi a Kumily attraversa il cuore verde del Kerala, salendo lentamente dalle pianure costiere fino ai rilievi delle ghat occidentali. Il percorso serpeggia tra piantagioni di tè, cardamomo e spezie, con vedute mozzafiato su vallate nebbiose, cascate e villaggi sospesi tra le colline.
Man mano che ci si avvicina a Thekkady, l’aria si fa più fresca e profumata, e la giungla del Periyar Wildlife Sanctuary annuncia l’arrivo a Kumily, porta d’ingresso a uno dei paesaggi più suggestivi e aromatici dell’India del Sud.
Questi sono alberi da gomma (Hevea brasiliensis), e i sacchetti servono a raccogliere il lattice, la materia prima per la gomma naturale.
Sulle colline verdi del Kerala, a pochi chilometri dal confine con il Tamil Nadu, Kumily e’ una cittadina di frontiera, un piccolo nodo di strade tortuose.
Il mercato è il cuore del paese. Cumuli di spezie si accendono sotto la luce, in piramidi di colore: curcuma, zenzero, cannella, chiodi di garofano. I commercianti mescolano le lingue del sud India ( malayalam, tamil, inglese) in un brusio continuo. Tutto profuma di terra e legno, di pioggia e fuoco
intorno, la natura mostra la sua bellezza senza filtri
Qui comincia la giungla: mi dicono che è il territorio degli elefanti, dei bisonti gaur e delle ombre della tigre.
Le guide camminano a piedi nudi nei sentieri fangosi, mostrano impronte fresche, rami spezzati, nidi di uccelli sconosciuti. Ma, purtroppo, non incrocerò nessun animale .
Ogni sera, quando la nebbia comincia a calare sulle colline di Kumily, una piccola folla si raduna davanti a un edificio di legno e laterizio, poco fuori dal mercato principale. Sopra l’ingresso, una scritta in malayalam e in inglese: Kalaripayattu Show. Dentro, l’aria sa di olio di sesamo e di terra battuta: è qui che va in scena una delle arti marziali più antiche del mondo.
Il Kalaripayattu nacque secoli fa nel Kerala, come disciplina di guerrieri e monaci, e si dice che abbia influenzato anche le arti marziali asiatiche successive. Il termine deriva da kalari (palestra, campo di addestramento) e payattu (combattimento). È molto più di un’esibizione fisica: è un rituale di concentrazione, energia e rispetto.
La sala è illuminata da torce e da piccole lampade a olio. I combattenti (uomini giovani, a torso nudo, il corpo cosparso di olio medicinale) entrano in silenzio, salutano la divinità posta in un angolo del ring e poi si dispongono in cerchio. La musica comincia: tamburi, cimbali, un ritmo antico che scandisce ogni movimento.
I corpi si muovono come acqua e fuoco insieme. Si scambiano colpi di bastone, spade corte, scudi rotondi. Ogni gesto è calibrato, coreografico, ma nasce da una logica di combattimento reale. L’allenamento del Kalaripayattu include anche lo yoga, la respirazione, la meditazione. È una danza guerriera, dove la grazia non è l’opposto della forza, ma la sua forma più alta.
Lo spettacolo prosegue con Kathakali, un’antica forma teatrale-danzata che unisce gesti codificati, espressioni intense e costumi elaborati. Gli attori, truccati con colori vividi, raccontano storie epiche del Mahabharata e del Ramayana.
E, con queste immagini vi lascio per la seconda e ultima parte del mio viaggio nell’India del Sud. Parto alla scoperta del Tamil. Stay tuned!



















































































