Kenia tra i Samburu ed i Turkana

“Quando il sole scende, gli occhi muoiono” recita un vecchio proverbio di questa terra. Un paesaggio di pietra e terra dura, dove prepotenti e determinate acacie ombrellifere combattono una estenuante guerra per la sopravvivenza conquistando battaglia dopo battaglia preziose gocce d’acqua.

La terra di nessuno del nostro immaginario, perché, se si pensa ad un purgatorio dove espiare le pene e redimersi per non vedersi bruciare nell’inferno…. ebbene io lo vedo così. Terra arida, con cespugli grigi così spinosi da resistere a quell’alito di Eolo che soffia incessante, senza prendere fiato. 

Il cielo che si fonde con la terra in un paesaggio monocromatico fatto di nuvole di polvere dalle cinquanta sfumature di sabbia.

I “Padroni delle terre” (Lokop )sono loro, gli antichi guerrieri, i Samburu. Arrivati dal Sudan tantissimi anni fa (nel 1700) sono una delle tribù più antiche dell’Africa Orientale. Eleganza e fierezza in uno sguardo quasi nobile. I Samburu sono gentili, accoglienti, sorridenti: curiosi solo quando lontano dal turismo e qui, in una landa inospitale dove, secondo il moderno discutibile concetto di essere, per il turista che non sa viaggiare da solo,  “non c’è nulla di interessante” ebbene, qui, c’è una sorta di apertura. Tra le nuvole di polvere rossa, i pastori allungano il loro passo con quell’eleganza ormai rara nel mondo occidentale: esili, alti, avvolti nei colori più solari del mondo.


 

 

 

 

 

 

 

Una società fatta di luci ed ombre, come molte, d’altra parte, ma si sa, il Continente Nero è una pentola in ebollizione e quando apri il coperchio puoi trovare di tutto.

I Samburu sono poligami: ogni moglie ha una capanna che costruisce con le proprie mani. Fango e bastoni intrecciati e sterco di mucca, che aiuta l’impermeabilità dei muri. L’entrata è minuta, occorre abbassarsi per accedere alla stanza rotonda, dove si riunisce la famiglia.

 

 

La luce filtra da due piccole fessure sul tetto, che permettono anche l’uscita del fumo dalla cucina. All’interno due piccole stanze, una per il marito ed i figli maschi, l’altra la moglie e le femmine.

Gli uomini decidono per la comunità, alle donne spettano la maggior parte dei lavori: cercare l’acqua e mungere le mucche, preparare il pasto, nonché costruire le collanine di perline e braccialetti di rame o alluminio, pieni di significati.

 

Non appena raggiungono la pubertà le donne subiscono l’amputazione delle piccole labbra e l’asportazione del clitoride. Un rito tremendo, vietato ufficialmente in Kenya, ma tuttora praticato in tutte le tribù. La donna che rifiuta l’infibulazione viene completamente emarginata dalla società.

 

 

 

 

E poi ci sono i bambini, tanti, con lo sguardo curioso



 

 

 

Le aride  colline battute da un vento fortissimo accolgono dromedari, mucche e capre, un vero tesoro di famiglia, accudito dai maschi, spesso bambini. A proposito dei maschi, la fase della circoncisione coincide anche con il passaggio all’età adulta. La prova di coraggio (non si deve piangere o urlare durante il rito brutale) li renderà guerrieri e pronti a creare una famiglia.

Anche il cibo è particolare: la colazione è sangue caldo di mucca (all’animale viene fatta una piccola incisione, praticamente indolore) mischiato a latte (quando disponibile, perché quando ho visitato il villaggio mi hanno detto che, causa carestia e mancanza d’acqua, le mucche non producono latte da mesi). Il resto dell’alimentazione è sorgo e mais, e un pugno di verdure. Nei periodi di carestia sono costretti a nutrirsi di capre. Non mangiano pesce perché considerato sacro, in quanto vive nell’acqua che è la vita.

Il Samburu lascia il villaggio per recarsi nel paese solo quando deve scambiare qualche bene, o trovare amici

 

 

 


 

Oppure comprare il Khat: le foglie di questa pianta contengono un alcaloide dall’azione stimolante, che provoca uno stato di euforia e crea forme di dipendenza.

 

 

Il Samburu non pensa alla metropoli, è lontano dall’idea di città e rumore e traffico e smog.

 

Il Samburu è orgoglioso della sua vita in un Marte su terra, e non vuole integrazione perché lui vuole vivere lì, dove “Quando il sole scende, gli occhi muoiono”

 

 

 

Spostandosi verso Nord, la strada diventa ancora più capricciosa. Il deserto di pietre si alterna a quella rena che ci costringerà a tirare fuori le piastre da sabbia per far riprendere la strada al camion incastrato.

 

 

 

La velocità di crociera non supera i venti all’ora. Oltre alla strada sterrata, con cunette e dossi, branchi di capre e mucche e cammelli invadono le corsie.

 

Si incontrano villaggi

 

 

 

Poi il paesaggio cambia: la sabbia diventa rossastra; poi pietre, sassi, rocce, ed il solito vento che soffia violento.

 

 

 

Il lago Turkana appare come un miraggio, un bel punto di azzurro tra tanta desolazione.

 


 

 

 

I Turkana sono i « popoli del bue grigio » perché furono loro ad addomesticare lo zebù, una sottospecie di bue dalle lunghe corna.

 

 

Vivono di pastorizia e il bestiame è la loro ricchezza, anche perché sono poligami e, poiché il bestiame è anche merce di scambio, un uomo può avere tante mogli quanti capi di bestiame possiede. Per le donne il simbolo di ricchezza è dato dal numero di collane indossate. Di base animisti, credono negli spiriti degli antenati ed in un Dio chiamato Akuj da cui dipende la pioggia, fondamentale per la loro sopravvivenza. Per questo i Turkana usano l’acqua solo per dissetarsi, mentre per lavarsi cospargono il corpo di grasso animale. Anche loro, come i Samburu sono niloti originari del Sudan, ma, a differenza dei Samburu, la loro sussistenza si basa sul bestiame.

Un territorio decisamente inospitale che però non esclude un portamento fiero e guerriero. Francamente molto meno socievoli dei Samburu: le poche foto che sono riuscita a fare sono scatti rubati. Alla vista di un cellulare o una macchina fotografica si irritano. Peccato: sono bellissimi! 


 

 

 

Lascio questa parte selvaggia per attraversare il confine ed incontrare altre tribù che vivono in Etiopia. Sarà un lunghissimo viaggio perché c’è una sola frontiera terrestra aperta, Moyale, e quindi dovremo percorrere circa quattrocento  chilometri di strade polverose e  dissestate, prima di raggiungere il confine, dove ci vorranno ben 26 ore per entrare in Etiopia. E poi da lì, risalire verso nord ovest per oltre seicento chilometri: giorni e giorni di terra selvaggia e polverosa e, purtroppo, vi anticipo che anche nei più remoti villaggi, la gente corre incontro urlando: “money money!”.

Ed ora un saluto agli attori di questa serie

 

 

 

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