Suriname

 

Al confine con le altrettanto poco conosciute Guyana e Guyana Francese, il Suriname è l’ultima frontiera di un viaggio in America del Sud. Una ex colonia olandese (l’olandese è di fatto la lingua ufficiale), che ha avuto l’indipendenza nel 1975 ed è oggi una repubblica unitaria. Un piccolo paese ma incredibilmente multietnico: le culture indigene convivono con quelle olandesi, inglesi, cinesi, indonesiane ed indiane. Poco più  di 550 mila abitanti ed una moltitudine di lingue: oltre l’olandese si incontrano persone che parlano  l’hindi, il giavanese,il portoghese, il cinese, il creolo, nonché le lingue amerinde e dei cimarroni, tanto per citarne alcune.

L’allegra convivenza è particolarmente evidente nella vivace Paramaribo, dove si trova un esempio per tutti: davanti alla Sinagoga, la Neveh Shalom, una splendida costruzione in legno con colonnato bianco, sorge un’altrettanto bella Moschea, la Moschea Keizerstraat, pare la più grande dei Caraibi. Entrambe bianche, linde, separate da un paio di palme svolazzanti e con addirittura un parcheggio in comune. Davvero un grande esempio.

 

 

Da notare che la Moschea è stata costruita in vent’anni perché tutto è stato fatto dalla mano dell’uomo, senza utilizzare macchinari. Per quanto riguarda la Sinagoga, costruita nel diciannovesimo secolo, ha un pavimento fatto di sabbia, per ricordare l’attraversata di quarant’anni nel deserto, degli ebrei.

Paramaribo (Parbo, così è chiamata dai suoi abitanti) è una città che mi ha sorpreso positivamente. La vivace architettura coloniale è presente ovunque, per cui basta passeggiare lungo il Suriname River e percorrere le strade del centro, per sentirsi in un altra epoca. Il centro storico di Paramaribo è patrimonio mondiale dell’umanità dal 2002 (dichiarazione dell’Unesco).

La piazza dell’Indipendenza ed il bel palazzo del presidente sono un punto perfetto per iniziare la passeggiata che porta poi al Palmentium, un parco con palme altissime, attraversando la bella zona che ruota intorno al Museo, lungo le rive del Suriname River.



 


Sulla strada Il Memoriale di Baba e Mai, che commemora i coloni indiani portati in Suriname come lavoratori a contratto nel diciannovesimo secolo.

 

Ma gli splendidi edifici coloniali, con i balconi a sbalzo sono presenti un po’ ovunque; molti di questi sono sedi di enti pubblici.

La Cattedrale-Basilica di San Pietro e Paolo nel centro di Paramaribo, patrimonio dell’UNESCO, è la più grande struttura in legno dell’emisfero occidentale.

 

E poi si arriva al mercato centrale, diviso in due zone. La prima zona e’ la classica versione bazar, a due piani, con un trionfo di frutta e verdura al pianterreno e abbigliamento al primo piano. Nella seconda zona, che ho evitato perché ero sola e perché decisamente affollata, si vendono talismani, erbe, ossa,  e intrugli misteriosi : il mercato delle streghe è vivacissimo al mattino.

Passeggiata lungo il fiume con un gruppo di studenti

La domenica mattina Paramaribo è una città fantasma. Alle 10:00 del mattino non c’è un’anima in giro, i negozi ed i bar hanno le serrande sprangate. Cammino nella disperata ricerca di un luogo aperto per fare colazione, ed ecco che, passeggiando, incrocio un gruppetto di cinesi, dal corto passo veloce. Decido di seguirli, e mi trovo in un incredibile mercato, il loro mercato. Il Zondag Markt è un grande capannone dove banchetti espongono frutta e verdure freschissime. E poi dumpling e bun  (pasta ripiena di verdure e carne), cotti a vapore sul momento, leggeri e gustosi.

 

 

 

A proposito di cibo, le varie influenze etniche sono evidenti nella cucina del paese, che è veramente interessante, soprattutto per l’uso creativo di spezie. Certo, è un problema se non amate il piccante, perché qui veramente il palato s’infiamma.

Vi suggerisco il ristorante Souposo, gestito da un gruppo di giovani molto “Smart”: la zuppa di ocra con il pesce affumicato è buonissima. Un altro ottimo ristorante è situato sul fiume Suriname, vicino al museo Nazionale: De Gadri. Il piatto di pasta allo zafferano con il pesce e verdure locali (una specie di cicoria ripassata) non è sicuramente bello esteticamente, ma, credetemi, è  uno dei migliori piatti che abbia mangiato in Suriname (e non solo).

 

 

Per quelli che vogliono tassativamente un ristorante più elegante, a poca distanza, c’è Torarica, un Hotel 5 stelle, che ha naturalmente anche cucina Internazionale. Oltre al ristorante classico, c’è un’ottima proposta. Pagando meno di 30€ si può accedere alla piscina tutto il giorno ed avere una buona colazione con piatto e dolce nel ristorante all’aperto.

 

 

Ma le vere bellezze del Suriname sono fuori città. Bisogna cercare le riserve naturali, sparse in tutto il paese: il 90% della superficie del Suriname è fatto da foreste, distese di un verde accecante, con in mezzo la serpentina di fiumi. E poi pianure, con immense risaie,  e zone paludose decisamente interessanti, anche per la  fauna.

I fiumi che attraversano il territorio sono facilmente navigabili, perché le precipitazioni sono abbondanti.

Sembrerebbe un paradiso, ma purtroppo non è così. Gli scarichi tossici delle industrie minerarie finiscono nei fiumi avvelenandoli. Ma la crudele mano dell’uomo colpisce anche le foreste: la richiesta di legname per l’esportazione sta punzecchiando quel polmone di verde che respirava così bene, prima che il Dio denaro arrivasse anche qui.

Sono arrivata in Suriname via terra, cosa che amo fare, quando possibile, perché i movimenti delle frontiere terrestri danno un’idea dello stato del paese. Certo, ci vuole pazienza perché ci si trova veramente in mezzo alla gente locale e, come in gran parte del SudAmerica, il galateo è sconosciuto. Questa volta viaggio sola, perché la mia compagna di viaggio è dovuta rientrare a Londra.

Il grande traghetto ufficiale che fa la spola tra Guyana e Suriname si è rotto da settimane ed ora operano traghetti più piccoli, che devono sopperire ad un servizio molto richiesto. Per prendere un ipotetico traghetto delle 10:30 (che partirà alle 11:45), bisogna mettersi in coda alle 8, e, considerando che ci sono circa 3,5-4 ore di strada da Georgetown, ebbene sì, il pulmino/taxi passa alle 4:00 del mattino. È anche l’unica volta che non vedo traffico nella capitale della Guyana. La strada scorre tra villaggi silenziosi e vuoti, nell’ombra del primo mattino,  e foreste di quel verde oliva intenso.

All’improvviso l’autista inchioda e si butta sulla corsia opposta: ha appena evitato un caimano che stava attraversando la strada.

Meno di sei chilometri separano i due paesi, è decisamente più il tempo che si perde nei controlli passaporti e code per l’imbarco, che il tragitto vero e proprio.

Mi piace viaggiare con la gente locale. Riconfermo quanto sia straordinario e prezioso  avere Tempo, tempo per aspettare, tempo per guardarsi intorno, tempo per chiacchierare, tempo per pensare, tempo per far passare il tempo. Ci vorranno più di trenta minuti prima che il pulmino parta dal villaggio. Il pulmino parte solo quando è completo, bagagli compresi, che, in questo caso, occupano quasi metà dello spazio: la gente che torna in Suriname dalla Guyana ha valigie piene, perché tutto costa molto meno. Viaggio con Nyna, una coetanea della Guyana che ho conosciuto sul pulmino da Georgetown: sono bastate poche frasi di presentazione e sorrisi e poi lei mi ha chiesto: “anche tu sei sola? facciamo il viaggio insieme? Non mi piace, come donna, viaggiare da sola!”. Lei lavora e vive in Suriname. “Paramaribo non è pericolosa come Georgetown, è una città tranquilla, sono contenta di vivere lì, è tutto più caro, ma si guadagna di più e c’è una mentalità europea: mi sento un po’ olandese anch’io! Mi lasci il tuo indirizzo? E mi scriverai quando sarai a casa? Sono contenta di avere un’amica italiana: dov’è l’Italia? Quanto dista da qui? Assaggia questo: è un dolce allo zenzero….l’ho fatto io. Verrai a mangiare da me?”.

Poco oltre il confine inizia la campagna. Chilometri e chilometri di risaie, piantagioni di banane e mucche che pascolano serenamente, attraversando la strada, naturalmente senza avvisare.

Una deviazione lungo la strada che porta alla capitale va a Nieuw Nickerie, punto di partenza delle visite a Bigi Pan, una grande palude ed un bacino, dove vivono oltre cento varietà di uccelli.

La canoa a motore scivola veloce in mezzo a quel canale circondato da un verde surreale: profumo di linfa!

Bigi Pan significa Grande Lago, Bigi Pan è un’area naturale protetta con una superficie di circa 68000 ettari. Una vera oasi per quegli uccelli che migrano dal nord, sfuggendo ai rigidi inverni.  Dopo quaranta minuti tra mangrovie e paludi, con lo sguardo attento, alla ricerca di rettili o uccelli, il canale si apre ed appare il lago. L’Akira Overwater Resort Bigi Pan, spunta come un’oasi. Palafitte in mezzo al lago, circondato dalle cinquanta sfumature di verde. Un eco Resort confortevole, con un terrazzo dalla vista mozzafiato.

 

 

Tutto è costruito in legno, con passerelle che partono dalla struttura centrale con il ristorante comune, e portano alle stanze, semplici casette molto eco friendly. Pannelli solari forniscono l’elettricità.



L’ottimo buffet propone cucina locale: si vede che è un posto turistico perché il piccantissimo peperoncino, il famosissimo Madame Jeannette, viene servito a parte. Adoro il cibo molto piccante, e devo dire che in Suriname ho forse trovato il cibo più speziato in assoluto.

 

Ci sono molte attività da fare, che sono legate alla stagione ed al conseguente livello dell’acqua. Dopo cena, prima di godersi l’eterna brezza “marina” dal meraviglioso terrazzo, si sale in canoa per andare a cercare i caimani, che preferiscono uscire con le tenebre. È sempre una grande emozione vedere quegli occhietti lucidi che spuntano in mezzo a mangrovie verde oliva.

Ma Bigi Pan è soprattutto uno dei luoghi preferiti dagli amanti degli uccelli.

Il mattino ha l’oro in bocca!: la canoa spegne il motore e si lascia spostare lentamente dalla corrente. L’ibis rosso è elegante, vive in colonie e non ama essere disturbato.

 


Ci sono circa 250 chilometri da Nickerie a Paramaribo su una strada poco trafficata. Ogni tanto un controllo. Ad un posto di blocco, un poliziotto ci fa segno. La mia autista, una buffa signora tacco 12, accosta e tira giù il finestrino. Si parlano in olandese, capisco qualche sillaba. Ci dice di scendere. E solo allora realizziamo che la nostra auto ha una gomma a terra. Il mio vicino, malgrado sia tassativamente proibito fotografare poliziotti, non resiste ad uno scatto dove si vede il poliziotto che cambia la ruota, mentre lo chauffeur, tacco 12, resta a guardare.

 

 

A circa 50 km da Paramaribo c’è un luogo straordinario per gli amanti degli animali. Il “Fund Sloth” qui detto anche “Sloths Wellness Center” raccoglie i bradipi malati, feriti, abbandonati. Un centro in mezzo alla foresta, dove vivono questi dolcissimi animali. Il bradipo è uno degli animali più teneri che esistano, con quello sguardo un po’ stralunato di una dolcezza infinita. Ho avuto la fortuna di poter fare una passeggiata serale nella fitta foresta che circonda la casa . Ed è stato emozionante vedere un esemplare su un albero, intento a mordicchiare un pezzo di foglia di papaya selvaggia, uno dei suoi cibi preferiti. Si tratta di una pianta che assomiglia alla papaya classica, ma il cui gusto è completamente diverso.

 

 

Ma come ho già detto, il centro ospita in casa quegli esemplari che hanno avuto problemi: abbandonati dalla madre in tenera età, persi o malati. Ed eccolo, il piccolo trovatello, con una zampetta rotta, che gli impedisce di arrampicarsi sull’albero e che quindi rischia di venire sbranato da un giaguaro, un puma, un ocelot o, purtroppo anche essere catturato dall’uomo che, malgrado sia una specie protetta in Suriname, talvolta lo caccia , per la sua carne, simile a quella della pecora.

Guardate la dolcezza di questo animale ferito,  intento a nutrirsi, grazie allo straordinario lavoro del volontario del centro.

 

 

Dopo tanta bellezza, si torna a Paramaribo, ma solo per rifare il bagaglio. Qualche ora libera per un ennesimo giro della città e per cambiare denaro. Non trovo un ufficio cambi aperto, quindi decido (su suggerimento di un signore incontrato per strada) di andare in uno dei tanti Casinò della città. Si apre un mondo: davanti a scintillanti scatolette il cui suono vibrante sembra calamitare lo sguardo, sono sedute molte donne, con un gesto rituale. La moneta viene spinta nel foro, nella ricerca della felicità. Naturalmente, per coloro che pensano che il denaro faccia la felicità. Non mi aspettavo certo di trovare « le casalinghe di Voghera del Suriname » in un casinò. Meno scioccante vedere gruppi di cinesi davanti alla roulette con alte mazzette di soldi che coprono i loro sguardi senza espressione.

 

 

Il bagaglio è pronto. Ora mi aspetta una splendida avventura di sei giorni nella foresta amazzonica, con i Maroons.

La strada scorre piuttosto veloce, poi iniziano le buche ed un pezzo di pista.

 

Ogni tanto si incrociano camion, carichi di legname, che sfrecciano a folle velocità. Siamo nel distretto di Brokopondo, dove si trova la ricchezza del Suriname. Si intravedono le baraccopoli dove vivono i cercatori d’oro.

 

A Brokopondo si trovano le miniere d’oro (come la miniera a cielo aperto di Rosebel, canadese) o di bauxite (usata nell’industria bellica). La scoperta di questo minerale portò alla costruzione di una diga che, non solo ha costretto i Maroons e gli indigeni del posto, a lasciare le loro terre, ma ha anche portato alla diminuzione della fauna ittica che è passata dalle 172 specie del 1964 alle 62 odierne. La deforestazione, l’estrazione di minerali, lo sfruttamento forestale, i conflitti legati alla distribuzione dell’acqua, fanno pensare a  questo distretto con un sentimento di amore / odio. Un’area ricchissima, ma che in realtà ha portato prosperità solo a coloro che non vivono qui, lasciando agli autoctoni nessuna scelta, costretti ad una fuga verso una segregazione sempre più incisiva. Come dire: i ricchi (lontani) sempre più ricchi ed i poveri (locali) sempre più poveri.

Si perché, a tratti, la foresta sparisce. Sotto una pioggia scrosciante, i disastri dell’uomo appaiono più evidenti: le grandi aziende internazionali stanno distruggendo il polmone del Suriname, abbattendo gli alberi da cui ricaveranno legname.

 

 

 

La strada termina ad Atjoni : da qui bisogna proseguire in canoe di legno motorizzate,  lungo il Suriname River.

C’è fervore ad Atjoni: le barche caricano di tutto. La gente sul fiume vive in modo semplice, ma ci sono cose che deve tassativamente avere dalla città, come ad esempio il carburante per le canoe. Le piroghe che percorrono il fiume si fermeranno in tutti quei villaggi dove ci sono ordini da consegnare: sarà un lungo viaggio, intenso e meravigliosamente animato. 

 

 

 

 

 

Sulla barca accanto, un folto stuolo di donne in raccolta. Gli uomini sollevano un grande lenzuolo, con dolcezza: il corpo del defunto viene adagiato sulla piroga che lo riporterà nel villaggio natio.

Sono partita da Atjoni ed ho impiegato oltre 4 ore per arrivare a Kumalu Island, una minuscola isoletta in mezzo al fiume. Il tempo è cambiato almeno quattro volte: dal sole a picco all’ annuvolamento improvviso, fino agli scrosci violenti. È normale che imperversi un temporale di tipo equatoriale: la guida precisa: “Yes, here it rains cats and dogs…. But for a short time”. Sono abituati, tant’è che si solleva un enorme telone che copre le varie derrate e la gente si accuccia sotto, mentre la piroga continua a svolazzare sulle acque del fiume.


 

La vita lungo il fiume corre lenta, ogni cosa ha un tempo indeterminato: sono troppe le varianti per capire quanto tempo ci vorrà.

Il mondo qui non ha orologio, e nessuno sembra accorgersene.

I villaggi sono vicini, spesso la barca fa semplicemente uno zigzag da una sponda all’altra, per depositare agli abitanti locali, un pacco, un bidone, animali (vivi o morti), casse di birra, confezioni di riso…..

 

Un meraviglioso pappagallo si appoggia alla sponda della piroga, quasi come se mi volesse salutare.

 

 

I Maroons (Cimarroni in Italiano),  sono i discendenti degli schiavi africani, che sono riusciti a scappare dalla schiavitu’ e si sono rifugiati nell’America Latina. “Cimarrones” in spagnolo indica proprio i fuggiaschi, quegli schiavi che si sono dati alla macchia e poi si sono stabiliti lungo il fiume.

I Maroons sono anche chiamati Bush Creoles.

Dopo la scoperta delle Americhe, i colonizzatori (Francia, Spagna, Olanda, Portogallo e Regno Unito) iniziarono ad occupare i territori. I giacimenti minerari e le varie piantagioni (canna da zucchero, caffè , cotone tra altri) richiedevano una enorme quantità di manodopera, a tal punto che i galeotti ed i migranti volontari non furono sufficienti. Inizio’ così la terribile tratta degli schiavi africani. Dodici milioni di persone furono ridotte in schiavitu’ in tre secoli, presi dall’Africa e trasportati in America. Il piccolo Suriname ne accolse circa trecentomila, forza lavoro proveniente dall’Africa Occidentale (Benin, Ghana, Costa d’Avorio, Sierra Leone, Angola).

Le condizioni di vita infami spinsero molti a cercare di scappare verso l’interno. Le immense foreste accolsero così quei disperati che cercavano semplicemente la libertà. La meravigliosa storia dei chicchi di riso appare in molti racconti. Il riso fu importato dall’Africa, era nelle orribili navi negriere, stipato tra la carne degli schiavi, che venivano poi messi a lavorare nelle piantagioni. La manciata di riso che si riusciva a tenere in tasca (per gli uomini), o all’interno delle folte capigliature arruffate delle donne, intrecciate con gran cura, venne poi usata in quelli che verranno chiamate  « le piantagioni segrete ». Lo schiavo scappato nella foresta riuscì a costruire una specie di orto, proprio coltivando quel poco riso che secondo la legge del crescete e moltiplicatevi, salvò un popolo e permise di creare comunità autosufficienti.

Amo entrare in contatto con gli indigeni, anche se qui c’è una certa ritrosia, soprattutto in alcune cose: le donne non vogliono essere fotografate. È vero che spesso girano tranquillamente a torso nudo per il villaggio, ma in genere, anche quando si condividono ore di canoa per raggiungere la destinazione, si coprono per non essere riprese.

Le capanne sono semplici ma accoglienti. Il cibo è delizioso: la zuppa di piranha pescati nel fiume, la cassava (o manioca) che rende più consistente un semplice brodino, i pesciolini fritti, la pasta con pollo e verdure, tanto per citarne alcuni. I piatti sono gustosi anche grazie all’utilizzo dell’olio di cocco, molto profumato.

 

Per insaporire i cibi, come ho già detto, si usano dei peperoncini, i Madame Jeannette, che sono considerati tra i più piccanti del mondo.  Il “Suriname Yellow” è un frutto giallo dalla forma a lanterna. È il peperoncino più piccante che abbia mai mangiato.

La vita lungo il fiume  ha una sola “ora”: il buio.

In gran parte dei villaggi c’è un gruppo elettrogeno, che però si spegne presto. Il silenzio della notte è scandito solo dal verso degli uccelli . In 6 giorni ho dormito in tre villaggi. Il primo,  Kumalu Island, in realtà è una piccola isoletta con alcuni bungalow ed un ristorante. Si trova nell’intersezione di due fiumi, il Gran Rio ed il Pikin Rio. Gli spostamenti sono vincolati dal livello dell’acqua.

 


 

 

Da lì , in pochi minuti di piroga,  si arriva sulla terraferma.

 

 

 

La passeggiata nella giungla è incantevole: le guide mostrano con orgoglio il loro territorio, fatto più di gioie che di insidie. Gli alberi sono amici, e se ti perdi nella giungla, non dimenticare che c’è l’albero che ti fornisce l’acqua, quello da cui puoi succhiare nettare per avere energie, il riparo dal sole o dalla pioggia e, se ti ferisci, c’è anche l’albero la cui corteccia blocca l’uscita del sangue.  La meravigliosa camminata sale, fino a Pineapple Mountain, a 230 metri. La montagna dell’ananas è chiamata così perché, in cima, sorge una piantagioni di ananas. Da qui si ha una vista sulla natura sottostante: è come se la linfa ti stringesse in un forte abbraccio.

 

 

 

 

I fiori dell’ananas sono decisamente fotogenici .

 

 

E poi ci sono le rapide Tapawatra. Non immaginatevi un fotogenico scrocio d’acqua: qui c’è una specie di saltello dove l’acqua irruenta del fiume crea pozze naturali. Sedersi in mezzo a quest’acqua fresca e pura mi ricorda l’adolescenza, quando, in montagna d’estate, ci si immergeva nelle acque trasparenti dei ruscelli. Lasciarsi massaggiare dallo scorrere del fiume, è piacevole, come il trattamento di una spa.


 

 

Si riparte per un altro villaggio

 

 

Botopasi è un altro tipico villaggio lungo il fiume dove osservare la vita dei maroons.

Per gli ospiti ci sono un paio di meravigliosi bungalows sul fiume, con una bella terrazza che diventa il momento dei sogni la sera, quando il generatore si spegne e si sente solo qualche uccello gracchiare nella foresta.

 

Le donne si danno appuntamento più volte al giorno sulle sponde: lavano i panni o le stoviglie dopo i pasti. Sono belle nei loro movimenti aggraziati: le pentole di alluminio brillano sotto un sole pungente.

I bambini pescano con rudimentali utensili costruiti a mano. Anche  chi ha solo un filo resta in trepidante attesa che una preda abbocchi.

Peccato che le poche foto che ho fatto siano scatti veloci, rubati. Sarebbero splendide se loro mi guardassero e sorridessero. Ma così è la loro cultura e dobbiamo rispettarla.

 

Poco lontano, a Pikin Slee, esiste anche l’unico Museo dei Maroons, il Saamaka Museum, dove viene illustrata la storia di questo popolo, dalle capanne dove vivono, agli utensili che venivano usati nella vita quotidiana.


 

 

 

Poco lontano dal museo un famoso artista del legno locale (Toya Saaki) ci accoglie nel suo atelier, dove vengono lavorati legni che si trasformeranno in meravigliose sculture.

 

Il villaggio e’ vivace

 


 

Alcuni bambini si avvicinano con la merce da vendere: stasera zuppa di piranha!

 

 

Il negozio del villaggio è un punto di ritrovo: le bambine che incontro salutano con un “hallo, what’s your name?” . Poche parole in inglese, tanti sorrisi, tantissima curiosità tra quegli occhi vispi.

 

 

 

E si riparte verso un altro villaggio, il mio preferito : Jaw Jaw, un’immersione totale tra ritmi lenti e pace.

La meravigliosa capanna di legno dove ho alloggiato è semplice ma confortevole.

 

 

La vita del villaggio non è mai frenetica. Le persone che incroci salutano, senza fermarsi, ma con un passo lento.
In mezzo al villaggio c’è una grande sala, luogo di socializzazione. Quando succede qualcosa di importante la campana avvisa gli abitanti. Occorre ascoltare bene: i rintocchi della campana hanno messaggi diversi, dal semplice avviso di ritrovo, fino all’allerta per pericolo inondazioni o altro.

 

 

 

Davanti alle case i bambini giocano, le donne cucinano, si lavano i denti, si pettinano.

 

 

 

Sulla soglia di un uscio, un cucciolo di tucano muove i suoi primi passi. Trovato abbandonato nella foresta è stato raccolto piccolissimo: ancora spelacchiato, ma già vispo e curioso, nell’attesa che il piumaggio s’infoltisca e chissà, magari, un giorno, prenda il volo.

 

Oggi passerò mezza giornata a preparare la cassava (manioca). Il duro lavoro inizia con l’estirpazione dei piccoli arbusti dal terreno. Il frutto viene poi pulito, sbucciato, lavato. Ora è pronto per essere pestato (lavoro certosino), fino ad essere ridotto in polvere. Solo allora può essere cotto nella padella sul fuoco a legna. Pochi minuti e la bella forma è pronta per essere messa ad asciugare su foglie di banano. Il prodotto sarà utilizzato per il resto dell’anno, come companatico, nelle zuppette semplici o di pesce.

 

 


 

E poi le foglie per ottenere il te’, naturale, leggero e profumato, da scegliere secondo il proprio gusto.

 

Un’altra delizia che si trova nei villaggi è l’olio di cocco: le noci di cocco vengono pulite e ridotte in poltiglia, per poi venire essiccate al sole. Da questo si ricaverà un condimento gustosissimo.

 

 

Ho amato Jaw Jaw: le ore trascorse sull’amaca lasciando la mente libera, o a giocherellare con la figlia del proprietario; le semplici passeggiate nel villaggio, e la corsa quando è scoppiato l’acquazzone che ha immediatamente trasformato il luogo in un campo melmoso.

 

 

La partecipazione alla festa locale, dove i tamburi di semplici pelli, scatenano  danze sensuali che coinvolgono le giovani alla ricerca di un marito.

 

 

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E poi capita che torni dalla doccia (scordatevi il bagno privato, e provate l’esperienza dei nostri avi: un gran catino di legno con un po’ d’acqua, senza sprechi, come dovrebbe essere!) e trovi un meraviglioso tucano felicemente appoggiato su uno spuntone vicino alla porta d’ingresso della tua capanna.

 

Un saluto a questi splendidi abitanti di Jaw Jaw


 

 

E si riparte sulla canoa che scivola in mezzo a quella foresta amazzonica vergine che sembra uscita da una favola e, come le più belle favole, prenderà il suo meritato posto in un angolo del mio cuore.

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