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India 🇮🇳 DELHI (Parte 1)

“L’India è il luogo dove la vita e la morte sono la stessa cosa” : lessi questa frase quasi quarant’anni fa, tra le pagine de L’odore dell’India di Pasolini. Rimase a lungo dentro di me, come un seme silenzioso. Fu in quel momento che nacque il desiderio: vedere con i miei occhi quel paese che non si concede a metà, ma che si offre intero, con la sua vertigine di contrasti. Atterrare a Delhi significa cadere in una corrente senza fondo. L’aria è densa, impregnata di smog e di incendi, di clacson e voci che si accavallano. Appena uscita dall’aeroporto, il caldo ti avvolge come una stoffa ruvida e pesante: un colpo improvviso che non lascia tempo all’adattamento. Pasolini lo aveva intuito: l’India non si offre gradualmente, ma ti investe di colpo, senza presentazioni.

Cammino tra le strade di Paharganj, il quartiere dei viaggiatori. Bici-risciò sfiorano le bancarelle di spezie, bambini si rincorrono scalzi tra sacchi di lenticchie e fili elettrici che pendono come radici scoperte.

 

 

A ogni incrocio, un odore nuovo: fritto, letame, sandalo, ferro arrugginito. E’ un caleidoscopio olfattivo che confonde e ipnotizza, un caos che si trasforma in ritmo.

Delhi non è mai una città sola: è dieci città sovrapposte. Delhi è anche il luogo dove le religioni camminano fianco a fianco. Nel giro di pochi isolati si alzano minareti e torri campanarie, cupole dorate di gurdwara (i luoghi di culto della religione sikh), e portali scolpiti di templi induisti.

Dalle strade arriva un intreccio di canti: il richiamo del muezzin si mescola al rintocco delle campane, i mantra sanscriti incontrano i cori delle chiese. E’ una sinfonia dissonante eppure armoniosa, che racconta meglio di qualsiasi guida cosa significhi vivere in una città di 35 milioni di abitanti, che appartiene a tutti e a nessuno.

La moschea di Jama Masjid si erge maestosa, con i suoi minareti di arenaria rossa e marmo bianco che dominano il cuore antico di Delhi .

 

 



 

Poco distante, il Red Fort distende le sue mura d’arenaria rossa, come un eco di potere che ancora oggi domina Delhi.

Il Red Fort di Delhi, o Lal Qila, è una maestosa fortezza in arenaria rossa costruita dall’imperatore moghul Shah Jahan nel XVII secolo. Con le sue mura imponenti, i padiglioni finemente decorati e i giardini geometrici, fu per quasi due secoli il cuore del potere imperiale. Oggi è non solo un capolavoro architettonico, ma anche un simbolo dell’India: ogni 15 agosto, da qui, il Primo Ministro innalza la bandiera nazionale per celebrare l’Indipendenza.

 

Salgo su un risciò a pedali con Alvina, la mia guida, e ci immergiamo nei vicoli stretti e colorati, dove ogni porta e ogni bancarella racconta una storia diversa.

 

 

 


 

 

 

 

Al Raj Ghat, una semplice lastra di marmo nero con una fiamma eterna ricorda Gandhi, offrendo silenzio e pace nel caos di Delhi.

Qui si percepisce un’India più riflessiva, capace di introspezione, che si nasconde dietro il clamore delle strade.

 

Ritorna il frastuono dei clacson che si mescolano all’odore di spezie e incenso. Harjeet, l’autista, resta concentrato.

 

Alvina mi dice che in India, servono tre cose per guidare: 1) un buon clacson 2) dei  freni affidabili  e 3) Good Luck ! tanta, tanta fortuna.


Poi, all’improvviso,  scorgiamo Agrasen ki Baoli,
un’antica cisterna a gradoni, incastonata tra i palazzi moderni di Connaught Place. L’origine è incerta, e secondo le leggende popolari, l’acqua, un tempo nera, avrebbe “ipnotizzato “ le persone spingendole a buttarsi dentro. Oggi, il luogo conserva un’aria di mistero che attira curiosi e amanti del paranormale.

Scendendo le sue scale a più livelli ci ritroviamo in un’oasi di silenzio. Gli archi di arenaria e le nicchie giocano con la luce, e per un attimo il caos di Delhi sembra lontano, come se il tempo si fosse fermato tra queste pietre antiche.

 

 

 

Sri Bangla Sahib Gurudwara e’ uno dei più famosi e visitati gurdwara di Delhi. Il gurdwara è un importante centro religioso Sikh ed un’attrazione culturale per turisti di tutte le religioni. Fu costruito nel XVII secolo in onore dell’ottavo Guru Sikh, Guru Har Krishan.

 

 

 

 

È noto per aver ospitato il Guru durante la sua visita a Delhi e per aver fornito assistenza durante un’epidemia di vaiolo. Il gurdwara è simbolo di umiltà, servizio e devozione. La struttura è famosa per la sua cupola dorata ed il sarovar (stagno sacro) che riflette l’edificio, creando un’atmosfera serena e spirituale. Le sale (che non si possono fotografare) sono decorate con motivi tradizionali e calligrafia religiosa. La grande hall di preghiera ospita il Guru Granth Sahib, il testo sacro Sikh.

Si può partecipare alla preghiera, perché la recitazione del Guru Granth Sahib è aperta a tutti.  Bisogna coprire la testa (ci sono fazzoletti arancioni, forniti all’ingresso) e togliersi le scarpe, prima di entrare. 


Ed è proibito fotografare all’interno. E’ una vita culturale che offre uno spaccato della filosofia Sikh, centrata sul servizio, l’uguaglianza e la spiritualità.

Si possono fotografare, invece, le stanze  del langar,la grande cucina comunitaria gratuita aperta a tutti. E’ il cuore dell’esperienza Sikh: qui si pratica uguaglianza, servizio e condivisione, indipendentemente dalla religione, casta e nazionalità. Tutti sono benvenuti.

Sedersi insieme a sconosciuti e condividere il pasto e’ parte della filosofia Sikh. I Sewa (volontari) preparano e servono cibo semplice ma nutriente: pane (roti o chapati), riso, lenticchie (dal), verdure e talvolta dessert dolci. Il pasto si prende sedendosi a terra in file ordinate, sul pavimento, come da tradizione, in silenzio. Ogni giorno vengono preparati circa 5000 pasti, ma durante le feste Sikh si arriva a 25000 pasti.

 


 

L’India Gate è l’Arco di Trionfo indiano. Un maestoso arco di arenaria rossa che celebra i soldati caduti, mentre la fiamma eterna dell’Amar Jawan Jyoti veglia sul loro ricordo.

 

L’Humayun’s Tomb è uno dei luoghi più affascinanti di Delhi, patrimonio Unesco e capolavoro dell’arte mogul. E’ spesso definito “precursore del Taj Mahal”, perché ne anticipa la magnificenza e l’eleganza. È stato costruito  nel 1570 da Haji Begum, vedova dell’Imperatore Humayun, come mausoleo in suo onore. La tomba è realizzata in arenaria rossa con dettagli in marmo bianco. È circondata da giardini geometrici con fontane, canali e viali che creano simmetria e armonia. Al suo interno riposano non solo Humayun, ma anche decine di principi e nobili della dinastia Moghul: per questo è chiamata anche “la Necropolis of the Mughals”.


Il Qutub Minar fa parte dei siti Patrimonio UNESCO dal 1993. Un intreccio di monumenti che formano una vera e propria cronaca scolpita nella pietra.

La protagonista indiscussa è la torre  (che da’ il nome al sito), alta 63 metri, in arenaria rossa e marmo, iniziata nel 1193. Le sue cinque sezioni, segnate da balconi sporgenti, sono decorate da versetti coranici e motivi geometrici che sembrano intrecciarsi in un canto silenzioso. E’ il minareto in mattoni più alto del mondo


 

 

 

 

 

Accanto si trova Quwwat-ul-Islam Mosque, la prima moschea costruita in India. Le sue colonne ed archi raccontano una storia complessa: molti materiali furono riutilizzati da templi preesistenti, creando un’architettura ibrida che mescola motivi islamici con dettagli tipici dell’arte induista e jainista.


Inoltre, nel complesso del Qutub ci sono anche mausolei e tombe importanti

 

 

 

 

La mia guida, Alvina, mi ha portata in uno dei tesori meno conosciuti di Delhi, un vero gioiello nascosto che racconta la storia dell’architettura idraulica medievale in India. Scendendo i gradini di Rajon ki Baoli, sembra di entrare in un mondo sospeso nel tempo. La luce del sole filtra dall’alto, trasformando le arcate e le nicchie in giochi d’ombra e geometrie che danzano sulle pareti di pietra. Costruita nel XVI secolo, questa stepwell non era solo un serbatoio d’acqua, ma un luogo di vita quotidiana, dove le donne del quartiere si incontravano, scambiavano parole e risate mentre attingevano l’acqua. Anche oggi, scendere qui significa sentire quella connessione tra persone e natura, tra architettura e utilità, in un’armonia estetica.

 

 


A Delhi si respira spiritualità ovunque. Il Lotus Temple e’ un bell’esempio.

E’ un tempio Baha’i, aperto a persone di tutte le religioni. Il tempio è progettato a forma di fiore di loto, simbolo di purezza ed armonia. E’ composto da 27 “petali” in marmo bianco, che si aprono verso il cielo. L’interno (che non si può fotografare) è ampio e luminoso, con una cupola centrale che crea un’atmosfera di pace e raccoglimento: non ci sono immagini sacre né preghiere obbligatorie. Lo spazio invita semplicemente alla meditazione e alla riflessione.

 

Bellissimi anche i giardini intorno.

 

Il cuore pulsante di Nuova Delhi è Connaught Place, o semplicemente CP.  Non è solo una piazza, ma un intero universo circolare fatto di colonnati bianchi, caffè storici, negozi alla moda, bancarelle che si svegliano tardi ma poi sembrano non dormire mai, e, purtroppo, anche tanti cani randagi (una tristissima visione in tutta la città).


Progettata dagli inglesi negli anni ‘30 come fulcro della città coloniale, oggi è un crocevia che mescola passato e presente. Il cerchio principale è diviso in blocchi contrassegnati da lettere (A, B, C…..) e camminare sotto i portici e’ come attraversare un mosaico vivente di profumi, suoni e contesti. Dalle librerie all’aperto,

 

 

 

alle grandi catene internazionali, dai ristoranti iconici (come il classico Lazeez, o Connaught Clubhouse, molto trendy), fino alle piccole bancarelle di street food che offrono samosa fragranti.

 


CP e’ un ritrovo sociale, il punto d’incontro per viaggiatori e uomini d’affari.

Dalle scintillanti luci “Bollywoodiane” al buio, il passo è breve. Basta prendere una comoda metropolitana (vi assicuro è molto pulita e curata, ben segnalata ed efficiente e controllata da pattuglie di polizia, oltre allo screening dei bagagli con raggi X) e, in meno di mezz’ora, si passa dal paradiso all’inferno.

 


Si attraversa Okhla, l’immensa area  industriale dove si concentrano fabbriche tessili, chimiche e di elettronica e centri di call center. A questo proposito si stima che in tutta l’India questo settore occupi quasi tre milioni di persone. Giovani, laureati, con un inglese più o meno perfetto, sottoposti a turni a orari insoliti, per allinearsi ai fusi orari internazionali, ingabbiati in centri che operano 24/7, per servire clienti in USA, Europa o Australia. Quando è notte a Delhi e giorno in California, qui, tra cuffie e schermi, il  
mondo si incontra, in strutture moderne, con postazioni numerate e software all’avanguardia.

Pochi metri più avanti, lo Slum indiano. La vera traduzione, non letterale è: “Luogo dove le persone hanno costruito abusivamente su terreni di proprietà dello Stato”. 

Sto per entrare tra i vicoli stretti di Sanjay Colony, dove i fili elettrici corrono aggrovigliati sopra le teste come radici sospese nel cielo. Le fogne sono praticamente inesistenti ed i bagni sono comuni, l’acqua si porta a secchi, eppure  la vita qui scorre con una naturalezza che sorprende.

 

 

Non posso purtroppo fare foto, e documentare una realtà molto cruda. Le poche foto mi sono state concesse da alcune donne, o dove non c’era presenza umana. Il resto…… nulla, persino quando guardavo curiosa, davanti ad una scuola, i bambini nel cortile, e’ arrivato un insegnante e mi ha sbattuto la porta in faccia! Mi è stato detto quali sono i  motivi principali di questo atteggiamento, generale, da parte degli abitanti,  e sono molto diversi. Il primo è che una fotografia indiscriminata rischia di mostrare solo povertà e degrado, riducendo le persone a “soggetti da cartolina “ senza raccontare la loro dignità e la loro vita reale. Il secondo motivo e’ che, poiché gli slum sono considerati insediamenti informali  e abusivi su terreni pubblici o privati, fotografare può attirare attenzione indesiderata dalle autorità locali. Infine, si temono testimonianze visive da parte di chi magari, ha visto cose (illegali?) che non doveva vedere!

All’entrata dei vicoli ci sono i bagni pubblici, aperti a tutti.

 

 

Le mucche sacre girano, in cerca di cibo.

 

 

Il mercato è ancora chiuso (sotto la pesante calura di inizio  settembre) e aprirà nel tardo pomeriggio.

 

Prima di entrare nei vicoli, c’è una zona di incredibile umanità:

Nei vicini laboratori di Okhla, dove si cuciono abiti per le grandi marche internazionali, la moda corre veloce. Tagli precisi, scadenze serrate, container pronti a partire verso boutique scintillanti d’Europa o d’America. Ma non tutto diventa vestito: restano sempre ritagli, scarti di stoffa, frammenti che il mondo della moda considera superflui. E’ lì che Sanjay Colony entra in scena. Camion e intermediari portano questi avanzi nel cuore della baraccopoli, e, improvvisamente, ciò che non aveva valore diventa lavoro. Le donne si siedono in mezzo ai sacchi, e cominciano a selezionare, dividere, riordinare. Con gesti ripetuti e pazienti, trasformano il caos in ordine. Un filo rosso scartato a Milano, un cotone blu nato per una catena americana, un pezzo di lino destinato a un marchio di lusso francese: tutti finiscono tra le mani callose delle donne di Sanjay Colony. E’ un lavoro invisibile, pagato meno di 3 dollari al giorno (per una giornata lavorativa senza orari, sei giorni a settimana, quando c’è il lavoro!), ma che tiene in piedi intere famiglie. E in questa contraddizione si nasconde un paradosso potente: mentre la moda globale detta tendenze lontane, qui, negli angoli dimenticati di Delhi, le sue “briciole di stoffa” diventano dignità quotidiana.

 

Nei vicoli stretti, dalle porte socchiuse si intravedono stanze minuscole, interi mondi compressi in pochi metri. In molte brilla una televisione accesa.

 

 

Non c’è acqua potabile in casa, non c’è il bagno, ma non si smette di vivere il sogno di Bollywood, proiettato dentro case senza finestre.

Una clinica,

 

e un tempio, dove, anche tra i vicoli più stretti, la fede trova spazio e respiro.

 

Dove ci sono persone, tra i vicoli, l’aria è un intreccio di odori: spezie che sfrigolano in padelle improvvisate, polvere sollevata dai passi, risate di bambini che rincorrono un pallone tra le ombre dei muri.

E in mezzo a tutto questo, un’energia invisibile tiene insieme le persone: la certezza che, nonostante le mancanze, la comunità resta la vera ricchezza. Sanjay Colony non è una cartolina, non vuole esserlo. E’ un luogo di contraddizioni, di resilienza quotidiana, dove la vita non chiede il permesso : semplicemente accade, e fiorisce anche dove nessuno se lo aspetterebbe.

In India il fenomeno dei collegamenti elettrici abusivi è molto diffuso e non solo nelle zone rurali. Immagina un vicolo polveroso di Delhi al tramonto. L’aria vibra del calore rimasto intrappolato nell’asfalto, e sopra le teste si stende una ragnatela quasi surreale di cavi elettrici: centinaia, intrecciati, fili arrotolati con nastro adesivo, pendenti come liane nere.


Un uomo magro, con una camicia scolorita e il turbante allentato, si arrampica su una scala di legno traballante. In mano ha un filo spellato, lo stringe con dita callose, cercando il punto giusto dove “attaccarsi”. Intorno, i bambini osservano curiosi, mentre una donna anziana tiene in equilibrio la scala. Un piccolo scintillio bluastro esplode quando il rame nudo tocca il cavo principale: un fruscio, un odore di plastica bruciata. Poi, dal basso, un grido di gioia – la lampadina tremolante nella loro baracca si accende. Per chi guarda da fuori è un furto, per chi sta dentro e’ la conquista di una notte meno buia.

 

 

Il mio viaggio a Delhi continua….. tra pochissimo la Parte 2.

 

 

 

 

 

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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