I Viaggi di Lauretta

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Nelle strade di Delhi si vede l’infanzia rubata: basta uno sguardo ai semafori per vedere bambini troppi piccoli con la mano tesa e gli occhi che non conoscono più il gioco. Dietro quei gesti non c’è soltanto la povertà: c’è spesso un meccanismo oscuro, fatto di rapimenti, minacce, reti criminali che trasformano l’infanzia in merce. Molti vengono sottratti alle famiglie nei villaggi rurali, con la promessa di un lavoro in città. Altri semplicemente scompaiono: portati via, invisibili, inghiottiti dal traffico e dalla disperazione urbana. C’è chi viene costretto a mendicare, chi a lavorare nelle fabbriche, chi a vendere il proprio corpo. Le leggi in India esistono, severe, ma non sempre bastano: la corruzione, la lentezza burocratica e la vastità del problema rendono difficile spezzare il ciclo. Per questo, intere infanzie si consumano sui marciapiedi, tra un semaforo rosso ed un clacson.

 

 

Così come il maschile domina ancora gran parte dello spazio pubblico: lo si sente nelle strade, nei mercati, perfino nei silenzi delle donne che abbassano lo sguardo per non incrociare l’obiettivo. La società resta segnata da un’impronta patriarcale forte, fatta di tradizioni e ruoli tramandati. Certo, accanto a questo, c’è un’India diversa: ragazze che studiano, donne che guidano aziende. E’ un paese in bilico tra un passato che resiste e un futuro che bussa, con l’energia di chi non vuole più restare invisibile. Ma, per ora, anch’io, viaggiatrice incallita, resto ancora sorpresa, tra le migliaia di tuk-tuk incrociati, nello scorgere una, ripeto UNA DONNA, che con il sorriso smagliante mi mostra con orgoglio il suo sogno realizzato.

 


La mia guida (una ragazza) conferma che in India i matrimoni combinati esistono ancora e sono molto diffusi, anche se si stanno trasformando nel tempo. Se per secoli i matrimoni sono stati decisi solo dalle famiglie, spesso attraverso caste, comunità e reti sociali, con lo scopo di mantenere equilibrio sociale, economico e culturale, oggi, nelle grandi città,  si parla di “arranged-love marriage”, cioè combinati ma con il consenso dei giovani, che possono incontrarsi, conoscersi e decidere. Molte famiglie ancora si affidano a parenti, mediatori matrimoniali o portali online (come “Shaadi.com”) che funzionano come moderni sensali. Una “libertà limitata”, ma sicuramente meglio delle aree rurali, dove i matrimoni totalmente combinati continuano ad essere la maggioranza. 

Detto questo, in India il matrimonio non è soltanto una tappa della vita, ma un’istituzione che resiste intatta nel tempo. Malgrado molte delle unioni siano ancora combinate dalle famiglie, la celebrazione non perde nulla del suo fascino: giorni di rito e di musica, abiti sfarzosi che riempiono i bazar e boutique traboccanti di sete lucenti e ricami dorati.

Camminando tra quelle vetrine si ha la sensazione che l’intera città partecipi alla festa, come se ogni matrimonio fosse un evento collettivo capace di illuminare le strade.


 

 

L’India e’ un universo in cui la religiosità non è soltanto un fatto privato, ma permea lo spazio, il tempo e persino il paesaggio. Il Paese è spesso descritto come un “continente di fedi”: qui convivono e si intrecciano induismo, Islam, sikhismo, buddismo, giainismo, cristianesimo, zoroastrismo e molte altre tradizioni minori.

Uno dei tratti più sorprendenti è proprio la quantità impressionante di templi e luoghi di culto: si stima che in India esistano oltre due milioni di tempi induisti, dal piccolo santuario in pietra o legno nel villaggio, fino a colossi architettonici. Le moschee superano il mezzo milione, come la Jama Masjid di Delhi. Per quanto riguarda il Sikhismo, molte metropoli indiane ospitano i gurdwara. Così come i monasteri himalayani convivono con templi rupestri millenari.

La religiosità in India è quotidiana, vissuta come un respiro naturale: al mattino le campane dei templi scandiscono il ritmo della città. Durante i festival (Holi, Diwali, Eid…) le strade diventano fiumi di colori e canti. Anche negli spazi pubblici più moderni (mercati, aeroporti, treni) si trovano piccoli altari con ghirlande di fiori o statue di divinità. In India la religione non è relegata alla sfera intima, ma diventa architettura, musica, rituale comunitario, ma soprattutto presenza fisica nello spazio: per questo la sensazione, viaggiando, è quella di trovarsi in una terra che respira attraverso i suoi templi. Ogni strada, ogni quartiere, ogni villaggio ha un suo luogo sacro.

E’ impossibile contarli: fanno parte del paesaggio come gli alberi o le case. Si, è proprio questa l’impressione che si ha viaggiando in India: sembra che tutti credano in qualcosa.

 


E’ difficile, soprattuto per un’atea come me, fondersi in un mondo così spirituale.

Sotto il bel ponte del fiume Yamuna, qualcosa respira ancora. Sulla superficie lattiginosa di un fiume morto, il silenzio è interrotto da un ritmo antico: splash, taud, splash. E’ il suono dei dhobi, i lavandai tradizionali, che da generazioni percuotono i vestiti contro le pietre piatte sulle rive. Un tempo qui, il fiume era vivo. L’acqua scorreva chiara, portava con se freschezza e speranza. Oggi, invece, lo Yamuna si trascina come una cicatrice scura e maleodorante. E’ diventato uno specchio deformato delle contraddizioni urbane: scarichi industriali, rifiuti domestici, detergenti chimici. Nonostante tutto, i dhobi continuano a chinarsi, a insaponare , a strofinare.

“Che alternativa abbiamo?” domanda Rajesh, 52 anni, figlio e nipote di lavandai. Le mani rugose e screpolate, intrise di soda caustica e acqua inquinata, non smettono di muoversi mentre parla. “ Mio padre lavava lenzuola per gli ospedali, per gli hotel. Ora nessuno si fida più. L’odore resta, le macchie pure. Noi laviamo per chi non può permettersi altro”. I mucchi di panni si ammassano come colline di stoffa: camicie lise, sari scoloriti, lenzuola logore. Non sono più i capi delle famiglie benestanti della città, ma i resti del commercio di seconda mano, vestiti che arrivano da mercati lontani rivenduti come stracci, come stoffa da riciclo. E’ un’economia invisibile, fatta di mani callose e acqua nera. Intorno, l’aria è impregnata di odore acre: candeggina mescolata al fetore del fiume. Al vento, le lenzuola di gonfiano come vele di una nave alla deriva. Il mestiere del dhobi, che una volta era rispettato, un’istituzione con i vestiti immacolati, piegati con cura e restituiti alle famiglie come simbolo di pulizia e dignità, oggi è un’ombra, un lavoro che resiste solo per necessità. Ogni colpo di stoffa sulla pietra è un atto di sopravvivenza, non più dí tradizione.

 

Pochi passi e si scorge una delle tante donne, poco più di bambine, che impastano sterco e paglia, mani nude che lavorano a terra. Con quel miscuglio modellano il pavimento della baracca, lo rendono duro, compatto, quasi impermeabile. Un altro gesto antico, pratico e dignitoso, che trasforma la povertà in sopravvivenza. Mentre i dhobi lavano nel fiume morto, le donne costruiscono casa con ciò che resta: scarti di animali, scarti di vita .

In un angolo che sembra cancellato, la dignità respira ancora

 

In India i barbieri non hanno bisogno di muri. Li trovi ovunque, lungo le strade polverose, sotto un albero o accanto a un muro scrostato. Basta uno specchio appeso, una sedia consunta e un rasoio lucido. Le loro botteghe improvvisate sono teatri all’aperto, dove il gesto antico della rasatura si ripete tra clacson, polvere e voci di mercato.

 

 

 

Camminare nei vicoli della vecchia Delhi e’ come entrare in un bazar infinito di mestieri all’aperto. Ad ogni passo la città ti sorprende: il calzolaio piegato sulle suole da riparare,

 

il sarto che batte l’ago sulla macchina arrugginita sotto un telo di plastica.

 

Poco più in là un uomo frigge samosa in un pentolino annerito,

un altro prepara dolcetti

 

mentre un venditore di chai (te’ ) ti invita con un sorriso e un bicchiere fumante.

 

I venditori di uccelli

 

Di spezie

Di verdure e frautta

 

Di succhi fatti sul momento

Di lassi (l’ottimo yogurt indiano)

 

Di bombole del gas


Raccoglitori di plastica

E di immondizia

 

Qualche scimmia dispettosa saltella

 

 

Gli odori cambiano ad ogni incrocio : spezie, benzina, polvere, incenso.

 

Ma è proprio girovagando fra il frastuono di Chandni Chowk, con i risciò che suonano, i venditori che gridano e gli aromi di spezie che si mescolano all’aria pesante, che ci si imbatte quasi per caso in una soglia di luce. E’ il Gurdwara Sis Ganj Sahib, un altro luogo di pace, bianco e dorato, come un respiro di calma nel cuore pulsante di Delhi. Varcata la porta, il rumore della città si dissolve. Qui la memoria è viva: questo è il luogo dove il Guru Tegh Bahadur offri’ la sua vita per difendere la libertà di fede e la sua presenza sembra ancora vegliare sui fedeli che si inginocchiano davanti al Guru Granth Sahib.

 

 

 

 


Anche qui, come nel precedente langar, i volontari preparano pasti gratuiti per tutti, in un momento di condivisione dove ogni distinzione svanisce. E’ difficile non sentire un senso di gratitudine: per la generosità, per la pace che si respira, per il coraggio che ha reso sacro questo luogo.



 

I risciò e i Tuk-tuk si fanno strada nel traffico

 

Infilandosi anche in mezzo ai carretti che bloccano il passaggio

 

 

mentre la vita trascorre tra la frenesia ed il riposo

 

 

 

E’ ora di lasciare Delhi per alcune settimane, ma tornerò.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Lauretta Trinchero

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