Il treno notturno per Varanasi è una lunga attesa tra ronzii e sussulti. Arrivo all’alba, quando il Gange si accende di riflessi rosa. Sui ghat si compie un rituale eterno: uomini e donne si immergono nell’acqua sacra, lavando i corpi e le colpe. Accanto, le pire funerarie bruciano senza sosta, e il fumo si alza lento verso il cielo. L’inferno e il paradiso nello stesso luogo.
Qui vita e morte davvero coincidono, nello stesso respiro. Una bambina ride mentre gioca a spruzzare l’acqua, pochi metri più in là un corpo avvolto in un lenzuolo arancione scivola tra le fiamme. Nessuna scena è separata dall’altra, e questa compresenza spiazza il viaggiatore occidentale, abituato a separare i piani dell’esistenza.
Seduta sui gradini, penso a Pasolini che descriveva l’India come un luogo in cui «la vita e la morte sono la stessa cosa». Non era un’immagine poetica, era cronaca. La stessa che mi circonda oggi, immutata, feroce e dolce insieme.
Sulla riva del Gange, camminando lungo i ghats, il suono dei mantra si mescola al rumore delle acque e al fruscio dei sari che sfiorano la pietra. E’appena terminata la stagione dei monsoni ed il livello dell’acqua è ancora alto ed impedisce a molti pellegrini di immergersi nel fiume, lavando via peccati e fatiche.
I ghats di Varanasi sono scalinate di pietra che si tuffano nel Gange, lunghe distese dove la vita e la spiritualità si intrecciano in ogni momento della giornata. Ce ne sono più di 80, ognuno con una propria storia, un proprio carattere. Alcuni sono luoghi di preghiera e rituale, come il Dashashwamedh Ghat, dove al tramonto si celebra l’Aarti con canti, fiamme tremolanti e incenso; altri sono più intimi, frequentati da pellegrini che vengono a lavarsi nell’acqua sacra, offrendo fiori al fiume.
Camminare su quelle scalinate significa camminare dentro la storia stessa della città, respirando un’energia che è antica quanto il Gange e tanto viva quanto le persone che vi si affacciano ogni giorno.
A Varanasi i templi sono ovunque, e non sono solo costruzioni: sono custodi di storie, di preghiere sussurrate e di speranze lanciate nel fiume. Passeggiando, si ha la sensazione che la città stessa respiri, viva, e accetti chiunque si avvicini con cuore aperto. In ogni angolo trovi un luogo di culto, pensate che si stima che a Varanasi ci siano più di 20.000 templi, includendo i piccoli santuari sparsi in ogni strada e cortile.
Questi sono due ashram che ospitano bambini e giovani che ricevono un’educazione principalmente spirituale.
La spiritualità qui non è un concetto astratto, ma un’esperienza palpabile, che ti attraversa, ti scuote e ti accompagna ad ogni passo.
Varanasi è un caleidoscopio di colori, suoni e profumi, ma anche di figure che attirano lo sguardo: i guru. li incontri ovunque. Alcuni sono autentici maestri spirituali, con occhi che riflettono saggezza antica e una calma che ti invita a respirare insieme a loro. Altri invece sembrano più attori che uomini di fede: abiti sgargianti, discorsi altisonanti e sorrisi pronti per il turista in cerca di un selfie o di una benedizione “da cartolina”.
È un mondo dove devozione e marketing si intrecciano, e dove discernere l’autenticità richiede attenzione e intuito.
Tra templi che si susseguono ovunque, rituali che non smettono mai, e l’odore dell’incenso che riempie l’aria, Varanasi ti insegna a guardare oltre l’apparenza. La spiritualità vera è silenziosa, paziente, e si sente nel cuore del fiume, nel respiro della città e nei gesti semplici di chi vive la fede senza ostentazione. I guru autentici non hanno bisogno di luci o applausi: la loro presenza basta. I loro gesti sono lenti, precisi, come fili invisibili che legano il cielo e la terra. Con loro, l’offerta diventa davvero preghiera, il fiume davvero sacro.
E poi ci sono altri uomini, che il sacro lo indossano come un costume. Ti fermano per strada, ti offrono un rituale in fretta, un fiore, un mantra sussurrato a metà, e subito la mano tesa per il denaro. In loro non c’è inganno totale, ma piuttosto la prova che anche la spiritualità, a Varanasi, può diventare mercato.
Così, camminando tra i ghat, impari a riconoscere la differenza: non solo nei gesti, ma nello sguardo. I veri sacerdoti non ti cercano, non ti trattengono. Sono lì, fermi come il fiume, in attesa di chi davvero desidera attraversare la soglia.
L’immagine cattura un frammento vivido della vita quotidiana a Varanasi, sulle rive del Gange.
In primo piano si vede un sacerdote hindu, seduto a gambe incrociate su una pedana di legno, vestito con un semplice dhoti arancione e una canottiera chiara. Nella mano tiene un ventaglio di foglia di palma, simbolo di freschezza e calma, mentre davanti a lui una donna in sari verde ricamato con motivi dorati gli porge un’offerta. Sul piccolo altare improvvisato ci sono fiori di calendula arancione, ciotoline di metallo con acqua sacra, polveri colorate e candele: segni tangibili della devozione.
Attorno, il caos armonico tipico dei ghat: uomini e donne intenti nei loro rituali, barche dai colori vivaci allineate sullo sfondo, tende e ombrelloni che creano zone d’ombra contro il sole cocente. L’acqua del Gange scorre dietro la scena, luogo sacro di purificazione e preghiera.
Questa fotografia racchiude l’essenza di Varanasi: spiritualità intensa, vita che scorre tra il sacro e il quotidiano, un caleidoscopio di colori, gesti e rituali che da secoli si ripetono lungo le rive del fiume.
E questa invece il “sacro che diventa profano”, la spettacolarizzazione che però piace tanto al turista medio che cerca lo scatto curioso, senza storia.
In realtà, questo contrasto fa parte del volto complesso di Varanasi: la città è insieme sacro e commerciale, eterno e quotidiano, un luogo dove il confine tra devozione e opportunismo si dissolve tra le pieghe del fiume.
Varanasi non è una città che si osserva da lontano: ti avvolge, ti trascina dentro, ti costringe a guardare ciò che spesso preferiremmo ignorare. I suoi vicoli brulicano di vita — motorini di ogni genere che si intrufolano ovunque, e mucche che vengono nutrite per strada
botteghe colme di incensi,
fiori di calendula ammassati in ceste di bambù,
venditori di chai,
Lavandai e stiratori
Venditori di street food di ogni genere,
venditori di ottimo lassi e di orrendo paan, Una foglia di betel (paan leaf) che avvolge una miscela che comprende noce di areca (supari), calce spenta (chuna) e spezie dolci o tabacco (nelle versioni più forti).
E ancora ….pellegrini che scivolano scalzi verso il fiume.
E poi, all’improvviso, la morte.
Un corteo mi è passato davanti: uomini che portavano sulle spalle un corpo avvolto in tessuti dorati e aranciati, ripetendo “Ram naam satya hai”. Nessuno si fermava, nessuno si stupiva. Qui la morte non interrompe la vita: ne fa parte, ne scandisce il respiro.
Li ho seguiti fino a Manikarnika Ghat, il cuore pulsante delle cremazioni. Lì il fuoco non si spegne mai. Ceppi di legno accatastati, mani esperte che ne calcolano il peso e il prezzo, sacerdoti che recitano mantra.
Poi il fuoco che prende vita, e il corpo che lentamente si dissolve. L’aria si riempie di un odore dolciastro e pungente, il crepitio si mescola ai canti, mentre il fumo sale al cielo e i corvi volteggiano in cerchi lenti.
È una scena cruda, difficile da sostenere. Eppure, nello stesso tempo, è straordinariamente serena. Non c’è disperazione, non ci sono lacrime urlate: c’è compostezza, rassegnazione, un senso profondo di continuità. Il Gange riflette le fiamme, e quando le ossa si spezzano nel fuoco, un uomo con una lunga canna le raccoglie e le lascia scivolare nel fiume. Ultimo gesto di un rituale che è insieme terribilmente terreno e infinitamente sacro.
Ho lasciato il ghat con il cuore scosso e leggero. A Varanasi la morte non è un nemico da temere, ma una porta che si apre. È crudele nella sua nudità, eppure poetica nella sua accettazione. Qui si impara che la vita e la morte non sono opposti: sono due correnti dello stesso fiume, che si incontrano e scorrono insieme verso il mare della liberazione.
A Varanasi, sulle rive del Gange, c’è un mondo che pochi osano osservare da vicino. Qui, tra i crematori e il fumo degli incensi, vivono gli Aghori, asceti che hanno scelto di sfidare ogni convenzione sociale e religiosa per percorrere la via estrema della liberazione spirituale. Non sono eremiti ordinari, né semplici curiosi della morte: sono uomini e donne che cercano di fondere il corpo, la mente e lo spirito con ciò che la società teme e rifiuta.
Gli Aghori seguono una filosofia monistica, che sostiene che tutto nell’universo è uno ed emana da Brahman, la realtà ultima. Credono che l’anima di ogni persona sia Shiva, la suprema manifestazione di Brahman, ma è coperta da otto legami principali che causano ignoranza e sofferenza. Questi legami sono piacere sensuale, rabbia, avidità, ossessione, paura, odio, orgoglio e discriminazione. Gli Aghori mirano a liberarsi da questi legami e raggiungere il moksha, o liberazione, realizzando la loro identità con Shiva.
Per raggiungere questo obiettivo, gli Aghori si impegnano in varie pratiche che sfidano le nozioni convenzionali di purezza e moralità. Abbracciano deliberatamente l’impuro, l’inquinato e l’aborrendo, poiché credono che queste siano anche manifestazioni di Shiva e che nulla sia intrinsecamente malvagio o peccaminoso. Cercano anche di trascendere la dualità della vita e della morte, associandosi ai morti e ai moribondi.
Il loro credo è semplice e radicale: se tutto è manifestazione del divino, nulla può essere impuro. Per questo vivono tra teschi, ossa, rifiuti, e talvolta – in rituali estremi – arrivano a nutrirsi dei resti carbonizzati o a bere dal cranio umano come da una coppa sacra. Non è “cannibalismo” nel senso comune: non cercano carne, ma dissolvere ogni barriera tra puro e impuro, vita e morte, umano e divino.
Incontrarli a Varanasi è come guardare uno specchio deformante: ciò che per noi è orrore, per loro è via di liberazione.
Non tutti vivono costantemente nei crematori.
Ho trascorso alcune ore in un ashram fuori città, Maa Kali Aghor Vamcharini Tantrik Shakti Peeth Ashram ed è stata un’esperienza molto forte.
Un ashram tantrico di Varanasi — specialmente uno dedicato a Maa Kali o alla pratica Aghor — è un luogo spirituale unico al mondo. Si erge al crocevia tra vita e morte, devozione e distacco, dove il sacro e il profano si dissolvono nello stesso fiume di coscienza.
Tra teschi e ossa, gli Aghori si muovono come se ogni passo fosse seguito da occhi invisibili: venerando la dea Kali, colei che distrugge l’ego e le illusioni, liberando l’anima dalla paura e dall’attaccamento. Rappresenta sia la morte che la rinascita, la fine di ciò che è falso e l’inizio della consapevolezza. È una Madre feroce e protettiva: protegge i devoti dai pericoli e dalle forze negative. Nella tradizione Aghor e Tantrica, Kali è adorata come forza suprema della trasformazione. In sintesi: Kali è la Madre e la distruttrice, la forza che brucia tutto ciò che è falso per rivelare la verità ultima. Non è malvagia, ma profondamente liberatrice.
Sono entrata in punta di piedi, con una guida che conosce il luogo, e sono sempre rimasta in un angolo: osservatrice di un mondo che sembra oltre ogni confine.
All’interno, l’aria è satura d’incenso e di canto. Le lampade a ghee proiettano ombre danzanti sulle pareti annerite dal fumo. L’immagine della Dea — nera, terribile, bellissima — è adornata con collane d’ossa.
Attorno, una decina di discepoli siede in silenzio, gli occhi chiusi, il respiro lento.
Un suono profondo rompe l’immobilità: una conchiglia, poi il battito secco di un damaru, il piccolo tamburo di Shiva. Un mantra comincia a scorrere come un fiume basso, ipnotico:
Om Kreem Kalikayai Namah… Om Kreem Kalikayai Namah…
Le poche fotografie e brevi video fatti, sono in realtà “scatti rubati”, velocemente, perché non ho resistito alla tentazione di avere almeno un piccolo ricordo di un pomeriggio tra i più strani della mia vita. Un mondo così lontano dal nostro, incomprensibile per una mente occidentale, ma che merita rispetto.
Non è spettacolo, ma devozione. Sollevando resti umani verso il cielo, bevendo da teschi come da coppe sacre, cantando mantra che rimbombano tra le pareti. Ogni gesto dissolve paure, tabù e attaccamenti: la morte diventa materia viva, e l’estremo si fa ponte verso il divino. “Nulla è da temere, perché tutto è divino.”
gli Aghori sollevano kapala, coppe ricavate da crani umani. Dentro vi possono essere alcool, infusi di erbe, talvolta oppio. Bere da ciò che incarna la morte significa proclamare che il divino non esclude nulla.
In questo rituale, non sono solo gli uomini a varcare il confine. Alcune donne devote, accolte negli spazi più intimi dei riti tantrici, entrano in stati di trance: il corpo trema, gli occhi si ribaltano, la voce si spezza in mantra. Si dice che in quel momento la dea Kali si incarni in loro, feroce e materna insieme.
La loro presenza non è folclore: rappresenta la potenza femminile che equilibra l’ascesi maschile, la shakti che completa l’energia di Shiva. “Quando la dea danza dentro di me, non sono più donna né uomo: sono solo energia”, racconta sottovoce una devota.
La società li osserva con un misto di timore e reverenza. Gli Aghori sono guaritori e maledetti allo stesso tempo. I loro rituali estremi suscitano paura, ma molti pellegrini si rivolgono a loro per benedizioni o guarigioni. In un’India che condanna alcool e droghe, loro ne fanno un uso rituale per rompere i confini della mente.
La dea Kali non rappresenta il male, bensì la distruzione dell’ego e delle illusioni: ciò che per l’occhio comune è orrore, per il devoto è liberazione. “Tutto muore, mi sussurra la città. Tutto, tranne la verità”.
Un giro in barca sul Gange, permette un’altra visione. Dal fiume, i templi scintillano sotto il sole, le barche dei locali passano vicine, e i bambini giocano sulle rive, le loro risate si mescolano al rumore dell’acqua che lambisce la barca. Ogni momento è un frammento di vita vissuta da secoli nello stesso modo, immutabile eppure sempre nuovo.
Seduta sulla barca, percepisco un ritmo antico: il Gange è più di un fiume, è la linfa della città, un flusso continuo tra il sacro e il quotidiano.
Tutto scorre, tutto respira, tutto vive sul Gange.
Ho lasciato Varanasi con il suono delle campane ancora nelle orecchie e l’odore del fumo che saliva dai ghat.
Qui la spiritualità non è un rifugio, ma una presenza concreta: nei corpi che si immergono nel Gange, nei volti coperti di cenere, nei silenzi che seguono ogni preghiera.
In questa città, la vita e la morte si guardano negli occhi e, per un momento, sembrano capirsi.
Ed è ora, per me, di lasciare il nord dell’India. Un volo di 3h30 mi porterà all’estremo sud del paese, da dove ripartirà la mia avventura.

































































